Cimeli
Le altre persone che incrociavamo sul nostro cammino andavano tutte nella direzione opposta. Ci fermavamo a parlare con pochi di loro, per lo più per commerciare, e tutti ci sconsigliavano di avvicinarci alla città. “Non è un luogo sicuro,” dicevano. David non li ascoltava, pensava fossero anche loro cacciatori di tesori che volevano preservare il territorio. David è mio fratello più grande. Da quando mamma e papà non ci sono più si prende lui cura di me. David è un cacciatore di tesori da quando ha sedici anni. Un cacciatore di tesori è una persona che si aggira per le rovine del vecchio mondo cercando cimeli. Un cimelio è un oggetto che, insomma, lo sapete cos’è un cimelio. I cimeli sono rarissimi e preziosissimi, li scambiamo con altri cimeli, cibo, acqua pulita, vestiti, armi di vario tipo (pistole, fucili, coltelli). I cimeli possono essere di ogni tipo: piccoli dischi di plastica con delle scritte sopra, libri impolverati spesso scritti in lingue sconosciute, abiti antichi, gioielli preziosi, scarpe. Le scarpe valgono tantissimo. Cosa non darei per averne un paio ai piedi proprio ora. David di solito perlustra le campagne e i vecchi bunker antiatomici sparsi per la regione, ma ultimamente i cimeli scarseggiano, così ha deciso di andare a perlustrate la città. Ciò che ne resta, almeno.
Vista da lontano, la città sembra un ammasso di rocce informi, altissime. Più ci avviciniamo, più rimango sbalordito dalle enormi costruzioni, dalle poche che sono rimaste in piedi, quantomeno. Le strade: ammassi organizzati di detriti, sabbia, rocce, cemento, ossa. Sembra di viaggiare indietro nel tempo, sebbene non riesca a immaginare davvero come potesse essere vivere in una città.
«Un tempo le persone vivevano qui in migliaia, che dico, milioni,» dice David. «E la mattina camminavano lungo questa strada per andare a lavoro o per fare le loro cose.»
«Che genere di cose?»
«Le solite. Non so, andare a cercare oggetti, a trovare i parenti, a guadagnare dei soldi.»
«Cosa sono i soldi?»
«Tipo cimeli, ma fatti di carta e metallo.»
«Tipo i libri?»
«Sì, ma più piccoli, come se fossero piccole pagine di un libro.»
«Ed erano preziosi?»
«Preziosissimi.»
«Chissà se troveremo dei soldi, allora.»
«Non valgono più così tanto.»
David sa un sacco di cose. Le ha imparate dai libri, anche quelli che sono scritti in lingue strane. Dice che la mamma parlava una di queste lingue strane e l’ha insegnata anche a lui. Ogni tanto mi dice cose in questa lingua: “Bonjour mon petite garçon. Je t’aime bien.” Me lo dice ogni mattina appena mi sveglio. Dice che significa una cosa bella, anche se penso che mi prenda in giro.
Camminiamo a lungo per le vie della città. L’unico rumore che si sente è quello del vento che ogni tanto soffia. David dice che dovremmo perlustrare le case di qualcuno. Prima le persone vivevano in queste case tutte ammassate una sopra l’altra. Lo dice indicandomi un edificio altissimo che mi fa un po’ paura.
Continua a camminare con passo sicuro, come se sapesse dove andare, finché dopo parecchie centinaia di metri si ferma di colpo e svolta a sinistra in una strettoia. Mi porta di fronte l’ingresso di un edificio e sbircia all’interno da una vetrata impolverata. La porta si apre non appena vi poggia le mani. Dentro è buio e puzza tantissimo di un odore che non avevo mai sentito. David accende una torcia. Deve darle qualche colpo con la mano destra per farla funzionare; mi dice di tenere gli occhi aperti per qualche batteria. Mi prende per mano e iniziamo a salire le scale. Dice che bisogna sempre andare a controllare le case in alto perché quelle in basso di sicuro sono già state ripulite. Gli chiedo perché non hanno ripulito anche quelle in alto, e lui mi dice che da ora in poi non si parla più, nemmeno per le cose importantissime. Se è importante devo tirare la sua mano e indicare.
Saliamo un’infinità di gradini superando un sacco di porte. Ogni tanto David si ferma e resta immobile per qualche secondo, poi riprende a salire. Mi fanno male i piedi, ma questo a David non posso dirlo perché di sicuro non è così importante. Ci fermiamo di fronte a una porta. Non riesco a capire quanto siamo in alto, dalla finestra che si affaccia sulle scale vedo solo mattoni. Con delicatezza estrae un filo di ferro dalla borsa e inizia a maneggiare sulla serratura. Un sonoro clic riecheggia per tutto l’edificio quando la porta si spalanca davanti a noi. Tratteniamo il respiro entrambi.
Dentro la casa: oggetti dalla forma stranissima fatti di materiali che non conosco, un tavolo, una scatola fatta di legno e vetro con due antenne di sopra, polvere ovunque. David entra con cautela, portandosi l’indice sulle labbra mentre mi guarda in volto. Esploriamo le varie stanze. È rimasto ben poco, ma riusciamo a recuperare qualche pila per la torcia, una cassetta per gli attrezzi (vuota, eccetto per qualche chiodo e un bullone), un cappello antico. La casa sembra essere ripulita e David sembra nervoso. Non capisco perché la porta fosse chiusa a chiave se qualche altro cacciatore era già stato qui. Esploriamo con calma, ma sento la mano di David stringermi più forte di prima. Sta sudando. Entriamo in una stanza che sembra quella di un bambino. Le pareti sono di un azzurro sporco, piene di carta appiccicata di sopra come quei volantini che troviamo ai crocevia, ma più grandi. Ritraggono cose che non conosco: una montagna tutta bianca con scritto sotto National Geographic (chissà dove si trova questo monte National Geographic), dei tizi vestiti in maniera stramba con degli strani aggeggi in mano e la scritta ACDC con un fulmine nel mezzo, un tizio biondo con un martello in mano con scritto sopra THOR che immagino essere il suo nome. Mio fratello ha gli occhi lucidi. Non per queste strane figure, quanto perché ha posato gli occhi su una mensola con una specie di piccola macchina rettangolare e dei piccoli cartoncini messi delicatamente in fila. Mi lascia la mano per un momento e raccoglie questa scatola, analizzandola con calma. Poi raccoglie i cartoncini e inizia a guardarli uno a uno. Ogni cartoncino che guarda fa scendere sempre più lacrime sul suo volto, finché non deve fermarsi per trattenere, mordendosi il labbro, un’emozione che non riesco davvero a identificare. Mi fa cenno di avvicinarmi e ci sediamo sul letto. Rompe finalmente il silenzio sussurrandomi all’orecchio:
«Vuoi vedere una magia?»
Annuisco.
«Nel vecchio mondo si poteva riuscire a fermare il tempo. Alcune persone usavano queste piccole macchine: gli bastava mirare a qualcosa e premere questo pulsante qui. Guarda, questi sono tutti momenti che sono riusciti a fermare.»
Mi mostra una a una quelle che ora capisco essere immagini di cose e persone. Ammiro cose che non avevo mai visto in vita mia, ma che sembrano così familiari:
Il sole che tramonta di un rosso vivo, sconosciuto.
Il mare, blu dai riflessi dorati. Lo stesso che David era solito raccontarmi prima di andare a letto.
Alberi stranissimi, con attaccate sopra un sacco di cose verdi.
La città, piena di gente che cammina.
Altissimi edifici pieni di luci.
Strane creature, pelose con quattro zampe.
Sorrisi, tantissimi sorrisi di persone abbracciate. Felici.
Due giovani che si baciano, stringendosi forte.
Rimaniamo su quel letto per chissà quanto, incantati. Così tanto assorti e meravigliati dal vecchio mondo e dalla magia di un tempo immobile e immemore, che ci accorgiamo troppo tardi che, dal buio del corridoio, qualcosa ci fissa.
Ci fissa con tutti e cinque gli occhi.
Raffaele Auteri è nato e vive a Catania. Studente di sociologia, alterna lo studio al lavoro di musicista. Sta attualmente scrivendo la sua prima raccolta di racconti.