Problems (estratto)
(Prime sei pagine del romanzo “Problems: stupefacenti complicazioni” di Jade Sharma, tradotto da Raffaella Maisto, pubblicato da Pidgin Edizioni nel febbraio 2019)
A un certo punto smisero di esserci giorni nuovi. Il tempo sicuramente scorreva: la pioggia diminuiva d’intensità durante la notte; più o meno all’alba, le auto rombavano e poi sfrecciavano via. Suoni si dispiegavano nel mondo, muovendosi in avanti, lontani anni luce dal salotto in cui me ne stavo a far niente, vivendo a malapena.
La colonna sonora della notte andava in loop ogni dodici ore: il ronzio del frigorifero, l’urlo di una sirena in lontananza, il suono di qualcuno che apriva un rubinetto da qualche parte nel palazzo. Il remix del chiacchiericcio da sabato sera di tizi ubriachi, che fumavano sigarette nel cortile e si chiamavano l’un l’altro “fratello,” intermezzato dal ritornello di squittii stridenti di ragazze ubriache ogni volta che un ratto sgattaiolava fuori dai cespugli.
A volte, alle prime ore del mattino, un uomo da qualche parte nel palazzo gridava per il volume della musica troppo alto. Ma non ho mai sentito della musica. Ho solo sentito gridare lui.
Una sveglia suonò, sepolta da qualche parte nel palazzo.
Cazzeggiavo per il mio appartamento nelle mie ciabatte rosa chiaro, indossando pantaloncini da uomo viola e canottiera. Mio marito, Peter, dormiva in camera da letto.
Peter. Per il mondo intero era il mio dolce e bel maritino che doveva sopportarmi. Quando piangevo, mi abbracciava e diceva di amarmi. A volte, mentre piangevo, mi diceva, «Ti va del gelato? Ti prendo del gelato.» A volte, mentre piangevo, mi diceva «Hai finito la droga?»
A volte a letto mi stringeva come un ragazzino egoista che dice “Mia mia mia” al mondo. A volte si prendeva cura di me come si prendeva cura di cose che gli appartenevano.
Io ero quella che perdeva le cose. Ero quella che voleva parlare quando era il momento di andare a letto. Io ero l’incasinata e lui era quello che alzava gli occhi al cielo. Io ero quella che comprava la droga con le mance che lui portava a casa. Lui era quello che tornava a casa ubriaco. Chi cazzo ero io per dirgli che aveva bevuto troppo quando doveva avere a che fare con me? Quando non si stava comportando da santarellino, diceva a me quanto fosse un santarellino per il fatto che riuscisse a sopportarmi.
Era un idiota. Un bellissimo idiota che dormiva di notte, si svegliava presto, andava a correre, andava al lavoro, tornava a casa ubriaco, collassava, e faceva tutto daccapo.
Ogni volta che un uomo diceva di amarmi, immaginavo come un giorno questo stesso uomo mi avrebbe detto che sono una stronza fuori di testa, perché io sono una stronza fuori di testa.
Una sigaretta spenta tra le mie labbra, cercai un accendino. Sul tavolino da caffè: metà bottiglia di ginger ale, biglietti della lotteria già grattati, spiccioli e una scatola di fiammiferi che non ricordavo mai essere vuota. Provai lo Zippo di Peter. Scintilla. Niente. Scintilla. Niente. Morto. Lo lanciai sul divano e andai in cucina ad accendere la sigaretta vicino al fornello. Mi sento come una di quelle donne di Intervention – Vite Drogate, fumando da sola a orari improbabili.
Sul divano, premetti le mie dita lungo la mia cassa toracica, feci scorrere la mia mano sotto la pancia verso gli angoli dei miei fianchi. Immaginavo che la mia mano fosse quella di Ogden. Infilai la mano nelle mutande. Immaginavo come sentisse la mia fica liscia. Come le sue dita toccassero le pieghe fino al mio clitoride. Come avrebbe sentito quanto mi aveva fatta bagnare.
Ogden era stato il mio professore quando seguivo i corsi della magistrale in Inglese. Avevo sempre voluto scoparmi un professore, come il tipo di scopata che elimineresti da una lista: celebrità, artista, europeo, pompiere, un’altra ragazza (fatto), sesso a tre (fatto), ecc.
Mi bagnai quando ascoltai la prima lezione di Ogden. Amavo la sua voce profonda e mascolina quando diceva parole femminili come “bella” e “poesia.” Mi piaceva il modo in cui dava un bel colpo ai jeans con la mano sporca di gesso lasciando che si formasse una striscia bianca e gliene passava per il cazzo. Pensavo alla sua voce profonda che mi diceva nell’orecchio, «Sì, ti piace?», il modo in cui i polsini della sua camicia fossero sbottonati. Notai una certa vacuità nel suo sguardo, come se avesse fissato per una vita intera il colore grigio. Avrei voluto tanto vedere il modo in cui cambiavano i suoi occhi mentre lo guardavo dal basso e glielo succhiavo.
Dopo la fine del semestre, ci vedemmo per un caffè, ma ordinammo dei drink. Aspettavo che mi prendesse, ma non lo faceva. Mi raccontava storie che sembravano già state raccontate. Mangiava il pane come un cavernicolo: mordendolo, faceva cadere delle briciole sul tavolo di legno. Perché non mi parlava come una persona normale? Chiedermi della mia infanzia, da dove io venissi o di Peter, e poi parlarmi della sua ragazza al liceo. Continuava a evitare la conversazione, piuttosto che parlare con me. Anche quando sei pronta a darla tranquillamente a un tizio, lui arriva e manda tutto a puttane. Non mi interessava più uscire con lui. Volevo andare a casa.
L’idea di dividere un taxi fu sua. Salii dietro, con le mani sul sedile di pelle. Disse al tassista dove andare. Lo fissavo mentre guardava fuori dal finestrino. Era completamente a suo agio con l’idea di stare seduti in silenzio per tutto il tempo e poi non vedersi mai più. C’era qualcosa negli uomini che non volevano vedermi mai più che mi faceva venir voglia di succhiare il loro cazzo.
«Quindi non vuoi fare sesso con me?» gli dissi, come se fosse un affronto.
«Non credo che accadrà, quindi forse è meglio così,» disse.
«Sì,» dissi, mentre fissavo fuori dal finestrino, come quando cerchi di guardare in fondo alla strada tra gli isolati. «Ma sai,» dissi, «c’è il fattore conquista. È stato il mio obiettivo per un semestre intero…»
Lui rise. Poi disse, «Vieni qua.»
Salii su di lui e lui mi infilò la lingua in bocca. Sto pomiciando di brutto con Ogden Fitch, pensavo mentre pomiciavo con Ogden Fitch. Non baciava come mi aspettavo. La sua lingua si spingeva avidamente nella mia bocca. La macchina accostò di fronte al mio palazzo.
«Mi sono rasata la fica per te,» gli dissi nell’orecchio.
«Oh, che dolce,» disse, sembrando genuinamente lusingato. Gli infilai di nuovo la lingua in bocca.
Ero sposata con Peter da sette mesi.
Non fu perché non amavo mio marito che lo tradii.
A volte non sapevo se lo amassi o meno, mio marito.
Non lo sapevo. Era un matrimonio. Il matrimonio è noioso, e a volte vorresti uccidere quella persona, ma a volte invece senti vero il cliché per cui è meglio avere un unico partner con cui invecchiare quando il mondo è tanto freddo e pieno di estranei. Ma il più delle volte non sentivo niente.
Vedere la stessa persona così tanto non te la fa vedere più. A volte mi risvegliavo dallo stato di intorpidimento da TV in salotto e quella figura sfocata vicina al me sul divano tornava definita: un essere umano reale la cui mente era vivida e integra come la mia. Pensavo, Chi cazzo è questa persona? E gli domandavo, «Peter, a cosa pensi?» E lui rispondeva, «A niente.»
Lorrie Moore ha scritto, “Affinché l’amore duri, devi illuderti tanto o non illuderti affatto.”
A volte cercavo di tenermi forte a lui, ma perdevo sempre la presa e lui si dissolveva sempre sullo sfondo.
Avevo tradito tutti gli uomini con cui ero stata. Ritenevo stupido pensare che fosse sbagliato amare più di una persona alla volta. A volte il pensiero di chi debba mettere il proprio affare dentro che cosa sembrava il pensiero più assurdo del mondo. Io credevo di dovermi scopare più persone possibili prima che la mia fica si prosciugasse e nessuno mi volesse più.
Non dovresti darla subito. Questo è quello che ho sentito dire. Io non ne ho idea, perché non l’ho mai non data subito.
Dopo che avevo iniziato ad avere un amante, io e Peter cominciammo a litigare di meno. Qualche volta pensavo anche che fossimo più intimi di prima.
Non avevo mai immaginato che qualcuno mi avrebbe chiesto di sposarlo. Volevo provarla sulla mia pelle: una vita adulta fatta di liste della spesa, bucato e discussioni su chi dovesse comprare delle nuove lampadine. Peter era un badge che indossavo e diceva al mondo esterno, “Quanto potrò essere folle se questa persona normale ha deciso di spendere il resto della sua vita con me?”
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