Dazio-Raval
Le telefonai dalla stazione centrale alle sei del mattino. Avevo passato le ultime dodici ore con Alex a tirare droga bianca giù a uno scantinato fradicio convertito a club privato. Da allora sono trascorsi quarantadue giorni. Ho perso il lavoro, ho cambiato casa, l’amico mio Mauro è morto.
Aria soffocante. 30°C e non siamo nemmeno a giugno. Me la immagino Giuliana al telefono nel suo letto col cellulare in mano fra il cuscino e i capelli lunghi albicocca matura. Intanto macchine una addosso all’altra ingolfano la Riviera di Chiaia. Mi fisso su quel blocco d’acciaio e penso che ormai da troppo tempo vivacchio nel mio ingorgo personale senza via d’uscita.
La musica latino-americana proveniente da una finestra dà lo slancio alle gambe, un movimento con cui buttare fuori i pensieri che a colpi di mitragliate affollano il mio cervello, dura poco. Il bistrot è vicino, lo inquadro. Non sono certo il tipo che frequenta posti del genere. L’appuntamento è alle 22:00. Mancano quindici minuti esatti. Attraverso piazza Vittoria e me ne vado a fumare vicino al mare. Giuliana amava tuffarsi in quella vasta distesa di acqua salata, io non ho mai imparato a nuotare e restavo a guardarla come faccio quando sto fermo con me stesso nel mio ingorgo.
Al telefono avrei voluto dirle in che modo mi proiettavo nel futuro. Lasciare la città, prendere casa in campagna e iniziare a sfruttare il mio diploma all’agrario. Basta droga bianca, locali notturni, pillole, alcolici. Lei riagganciò non appena sentì la mia voce. Era lontana, altrove, su strade prive di ingorghi.
All’entrata del bistrot c’è un ragazzetto rotondo in viso che a vederlo dà l’impressione di avere le mutande infilate nel culo.
«Vengo per il lavoro di aiuto cuoco,» gli dico.
«Accomodati,» mi dice, indicando un divanetto in velluto rosso. Accetto il suo invito e vado a sedermi. È un divanetto osceno, ma comodo.
L’uomo sui cinquanta alla cassa non mi toglie gli occhi da dosso, ha lo sguardo secco e nervoso. Sguardo d’animale. Circa venti minuti e il ragazzetto rotondo in viso viene a sedersi lì con me.
«Ivan?»
«Luigi!»
«Ho appuntamento con Ivan.»
«Prima fai due chiacchiere con me.»
«Mi manda Alex De Maria.»
«Sì…» inarca le sopracciglia e sbuffa.»
«Fammi parlare con Ivan.»
«No!»
«Allora me ne vado!» lo punto diritto nei suoi fari blu.
In quel preciso momento l’uomo alla cassa fa: «Ci penso io, Lu’.»
Occhi d’animale si mette in piedi e scatta verso di me. Statura bassa, non oltre il metro e sessantacinque, magro, spalle strette. Consuma droga bianca!
«Andiamo di là.» Lo seguo. «Inizi male!»
«Non ho tempo da perdere.»
«Figurati io!»
«Dov’è Ivan?»
«Ce l’hai davanti!»
Non ci posso credere. È stato lì a fissarmi come un killer per mezz’ora.
Luce opaca, sala vuota. Altri divanetti e poltrone in velluto. Mi vedo il tipo di persona che svolge una vita tranquilla. Casa accogliente, golden retriever, un buon libro da leggere.
«Cosa bevi?» interrompe la mia proiezione.
«Mojito.»
Accavalla le gambe e fa scivolare le braccia lungo il corpo. Gli avambracci si posano sulle cosce scheletriche e le mani davanti alla cerniera dei jeans. Emette un lungo respiro affaticato.
«Ti piace il bistrot?»
«Complimenti! Bello.» In realtà mi fa schifo, anche se mi sto affezionando a queste poltroncine.
«L’ho ristrutturato da solo in tre giorni senza chiudere occhio.» Nel cranio mi appaiono collinette di polvere bianchissima da aspirare su vassoi di argento d’altra epoca.
«C’è tutto me qui dentro,» continua fiero di sé.
Attacca a parlare del figlio, di un socio infame che l’ha tradito, dei debiti, della fatica di essere imprenditore oggi, del precedente locale fallito e di quanto sia complicato trovare personale affidabile.
«Voglio gente che penda dalle mie labbra, mi segui?»
«Certo.»
Arrivano i cocktail. Mojito per me, whisky per lui. Al secondo sorso inizio a chiedermi che ci faccio qui. Ho un diploma all’agrario e sono finito a lavorare in posti dove servono zuppa precotta, ostriche e champagne. È stato Alex a pilotarmi. La sua vita è un susseguirsi di scene d’azione che tengono col fiato tirato nei polmoni, e io volevo entrare in quei fotogrammi stile Hollywood. Andare ai party, mangiare le sue pillole, tirare la sua Super Stardust. E ora eccomi qua. Alex conosce parecchi ristoratori che hanno il vizio della droga bianca ed è indispensabile per loro. Questi signori dalle camice sbottonate fino al quarto bottone sono tra i suoi migliori regular consumer, insieme ai ragazzi della notte.
Ivan continua a diffondere pezzi di vita privata uguale ai bambini coi coriandoli a carnevale. Mi racconta di suo fratello Igor, uno che si faceva di eroina già a quindici anni emigrato a Barcellona nel Raval verso la fine dei Novanta. Ora sono un bidone sfasciato lanciato su un dirupo da qualcuno che ha l’unico svago di far rotolare bidoni sfasciati. Resto immobile sul divanetto e non dico niente. Il racconto del fratello eroinomane si espande simile al petrolio fuoriuscito dalla petroliera in avarìa. Cerco di rimediare bevendo ancora qualche sorso del mio drink, ma ormai sento quell’affluente nero estendersi malvagio.
Lacrime scendono sul mio volto fino a trasformarsi in pianto incontrollato. Impavide tentano di riagganciarmi al mondo attraverso questo sconosciuto dall’anima devastata, il naso consumato da troppa droga bianca e i polmoni intasati da caterve di sigarette e Dio sa cos’altro.
«Piangi?!» Raccoglie la mia mano nella sua e la stringe forte. «L’hanno ritrovato morto nella sua mansarda, Igor,» paonazzo tira su col naso. Ha la droga bianca che gli esce dagli occhi e da tutti i pori. Vicino a noi c’è Mauro nel giorno che si tolse la vita lanciandosi dal quinto piano della mia casa a Dazio.
Voglio andarmene da qui e non metterci mai più piede. Andare via da questo dolore. E lo faccio. Ciao Ivan! Ciao grandissima faccia di cazzo di Luigi! Ciao mondo!
Tiro fuori dal portafoglio due Mitsubishi blu e le metto sotto alla lingua. Salgo via Calabritto, piazza dei Martiri, via Chiaia e mi butto su via Roma in mezzo a corpi frammentati. Devo trovare Alex! Devo entrare nel suo film! Scendo a Monteoliveto e diritto risalgo Trinità Maggiore. Gente fuori ai bar in posa. Odore d’erba. Puzza di sudore. Puzza d’acqua stagnante e scarichi fognari e vomito.
«Stasera ho grandi programmi, chico!»
Alex non saluta, non chiede mai come stai e non vuole sapere niente della tua giornata. Se gli dicessi del colloquio al bistrot che lui stesso m’aveva procurato non se ne ricorderebbe.
Entriamo in uno di quei bar affollatissimi. Appoggiata al muro c’è una coi dread vestita di nero, drink alla mano. Pelle bianca, fisico scarno, braccia tatuate. I suoi occhi lucidi ricordano superfici vetrate scintillanti riflesse al sole. Si avvicina a noi e abbraccia Alex. Movimento sincopato del bacino in quattro quarti. Parole sussurrate all’orecchio. Vedo lingue e gengive.
«Lei è Claudia.»
«Piacere di conoscerti, Claudia.»
Filiamo nel cesso, ho perso il conto delle toilette in cui sono entrato. L’abituale fetore del piscio irrompe nell’aria.
«Speed!» dice Alex e stende due strisce sul braccio destro della tizia.
«A te, chico.»
Odio lo speed, ma va bene lo stesso. Almeno per mo’. Tiro la mia riga con venti euro arrotolate passando attraverso una foresta dell’orrore abitata da serpenti verdi biforcuti, diavoletti, teschi sparpagliati ovunque e croci. Poi tocca a Claudia e ad Alex.
Usciamo dalla toilette, da quel bar. Maledetta aria soffocante! In testa risuonano parole confuse, rimproveri nel cuore della notte. Alzo lo sguardo all’obelisco dell’Immacolata. Alla chiesa del Gesù. I rimproveri si fanno insistenti. Il risultato di un’infanzia religiosa passata a fare il chierichetto alla chiesa di San Vitale. Cerco di non dare importanza a quelle voci che gridano al peccato e incitano al pentimento e mi riesce difficile. Non sono capace di togliermi dalla mente la disperazione della madre di Mauro nel giorno del suo funerale. Lei mi odia. Come se non bastassi io a odiarmi da quella sera.
Prendiamo via Cisterna dell’Olio ed entriamo in un palazzo che affaccia sul cinema Modernissimo. La scalinata che porta all’appartamento dove vive Alex è talmente buia e stretta che bisogna passare uno per volta. Dentro faccio attenzione a non calpestare gente stravaccata sul parquet e bottiglie vuote sparse ovunque che aspettano di finire nella spazzatura assieme alle migliaia di mozziconi nei bicchieri vuoti. L’odore del crack arriva da un piccolo stanzino in fondo al corridoio illuminato al neon. Musica deep house vagamente tribale viene diffusa dagli altoparlanti posizionati in due angoli del soggiorno. Altri ballano promiscui, fumano erba e bevono gin direttamente dalla bottiglia. Un ragazzo a torso nudo stende sul tavolino del soggiorno lunghe strisce di droga bianca. Alex lo bacia in bocca e comincia a smerciare pillole a forma di cuoricino, è un distributore che non conosce sosta. Osservo la mia nei dettagli, al centro a piccoli caratteri quasi invisibili c’è scritto: “Love yourself.”
“La gente cambia, il mondo va avanti,” mi dicesti il giorno che sei andata via.
Quanti avranno usato la stessa frase nella stessa circostanza? Non importa. Lascati dimenticare, Giuliana. Spacco a denti stretti quel cuoricino e ne ingoio la metà. L’altra la passo a una che se ne sta annoiata con degli occhiali gialli sulla faccia. È stravolta, le mascelle le vanno su e giù e gli occhi vagano alla ricerca di qualcuno o di qualcosa. La osservo a lungo. Ora sono quegli occhi. All’improvviso ricordo di aver lasciato i miei Ray Ban sul quel cazzo di divanetto al bistrot. Perché li ho tolti dalla tasca? Non posso affrontare l’alba senza occhiali. Devo recuperarli.
Una BMW bianca dai finestrini scuri si ferma davanti a me, uno seduto dietro apre lo sportello e pronuncia il mio nome. Non ricordo chi sia e non m’importa granché ricordarlo.
Tiro fuori dal portafoglio le due ultime Mitsubishi blu e le metto sotto alla lingua. Scavalco piazza del Gesù, scendo Trinità Maggiore, risalgo Monteoliveto e mi butto su via Roma deserta e senza ingorghi. Mi metto a correre. Voglio correre. Correre e non provate a fermarmi. Arrivo a piazza Vittoria sudato e affannato. Inquadro il bistrot, è chiuso.
«Affanculo!» urlo. «Perché ho tolto quei cazzo di occhiali dalla tasca? Ahhh!»
Non può sentirmi nessuno. Anche piazza Vittoria è spoglia. Saranno le due passate. Sono un po’ più solo e non so dove andarmene. Guardo alcune sagome di yacht illuminate. Il terrore mi invade. Non sono stato io a fargli prendere il vizio della droga bianca. “Giuliana, tu lo sai, Mauro tirava da un pezzo. Qualcosa in lui non funzionava più, era diventato paranoico e scontroso. Voleva lasciare Napoli e raggiungere suo fratello Mirko a Barcellona in quel cavolo di Raval. Diceva che qui ogni angolo di strada era macchiato da brutti ricordi e grandi occasioni mancate.”
Improvvisamente un boato esplode nel cielo. Mi incammino lungo la villa comunale. Dei motorini sfrecciano diretti chissà dove e un uomo sta cacando dietro alle macchine parcheggiate sul marciapiede. Fingo di non averlo visto. Ci vorrebbe un taxi per levarmi da mezzo alla strada prima che arrivi l’acquazzone. Nei film ambientati a New York si vede sempre gente pronta a sbracciarsi per fermarne uno nel momento del bisogno. Nei film di Alex invece si vedono uomini che cacano alle tre e mezzo del mattino tra una vecchia Twingo e un albero.
Roz Catone è nato a Napoli nel 1987. Suoi racconti sono apparsi su Neutopia, Squadernauti, L’inquieto e Voce del Verbo.