Madrelingua
L’installazione-video di Zineb Sedira mi ha fatto pensare a mia nonna. Al giorno in cui la filmai mentre mi raccontava di suo padre, di mio nonno, e dei sogni racchiusi nei mattoni della casa.
Nel primo schermo di Mother Tongue 2002, il dialogo tra l’artista e la madre si svolge in arabo e in francese. Zineb non parla la lingua della madre, ma la comprende. Nel secondo video, quindi, Zineb dialoga con la figlia in francese. La figlia, come la madre di Zineb, capisce il francese, ma non lo parla. Risponde in inglese alle parole dell’artista.
Nel terzo video il dialogo è assente. Lo sguardo della bambina è perso. E il suo viso sembra cercare aiuto, oscillando tra la nonna e la videocamera. Per un attimo, la bambina fissa l’obiettivo; ma i suoi occhi non trovano le risposte che cercano. La figlia, a differenza di sua madre, non comprende l’arabo.
Nel video girato a Konongo, mia nonna e io sediamo sulla veranda. La nostra conversazione inizia in medias res; una continuazione di quella conclusa alle due del mattino precedente. “E quindi mi dicevi del nonno…” sono le prime parole del video.
Tornato in Italia, condivisi un fotogramma del nostro dialogo. Nell’immagine il mio sorriso fa da eco al suo sorriso; il mio viso è rivolto verso il suo. Ma in quell’attimo, sospeso in un caldo pomeriggio di marzo, il viso di mia nonna sfugge al mio. Accenna una lieve inclinazione, e poggia delicatamente sull’indice della mano destra.
Su Facebook accompagnai l’immagine con una didascalia:
“Parlare significa essere in grado di usare una determinata sintassi, possedere la morfologia di questa o quella lingua, ma significa soprattutto assumere una cultura, sopportare il peso di una civiltà.” (Frantz Fanon)
Il dono più grande ricevuto da mia madre: parlare la lingua di sua madre, me nana.
Questa settimana, mentre ho iniziato a leggere Della Bellezza di Zadie Smith, mi sono tornate in mente alcune parole della scrittrice afro-britannica. Le condivise quattro anni fa, nell’intervista per il Corriere. Quando le lessi la prima volta, mi trovai in accordo con loro. E ancora oggi continuano a pizzicare le corde dei miei pensieri:
I giornalisti bianchi (…) fanno riferimento all’immigrazione con un’accezione negativa, come se avesse l’intenzione di oscurare la razza bianca, come se fosse una minaccia. Una macchia nera pronta a macchiare la purezza occidentale. Invece è vero il contrario, siamo noi “altri” che rischiamo l’estinzione, saremo noi a perdere le nostre origini alla fine.
Nel terzo schermo di Mother Tongue 2002, il timore che Zadie Smith espresse a Kibra Sebhat trova conferma. I ricordi di infanzia che la nonna racconta si perdono nel non-dialogo. I ricordi, per la nipote, sono significanti senza significato. Karakou appesi al vento che aspettano di essere indossati.
La sola cosa che mi tiene saldo ai ricordi di mia nonna è il twi. La lingua dove continuo a conoscere me stesso; dove il mio spirito si allenta. La lingua che amo abitare, nella cui intimità i miei pensieri dimorano.
Nel viaggio della migrazione – da Algeri a Parigi a Londra; da Konongo a Verona – l’identità culturale della famiglia si trasforma. E con essa cambia anche la lingua. A volte, la lingua di origine è conservata; altre volte è perduta.
Quali che siano le culture che assumerà, il mio sogno rimane: anche per mia nipote, i ricordi di mia nonna saranno significanti colmi di significato. Kente e duku appesi al vento che saprà indossare. Drappeggi di una cultura che saprà accarezzare.
Theophilus Imani è uno studente di medicina all’Università di Pavia. Nel corso degli anni ha coltivato un profondo interesse per l’arte contemporanea africana e diasporica.