Marco Polo
(Racconto tratto da PANK Magazine. Traduzione dall’inglese di Lellida Marinelli.)
«Marco!» gridò nell’oscurità del deserto.
«Polo!» gli rispose il fratello mentre trasportavano il materasso. Era un materasso nuovo per i nuovi inquilini del nuovo complesso condominiale che circondava la nuova piscina. Era notte ma Marco e Polo erano ancora fradici da tutto un pomeriggio di consegne. Il sudore colava dai capelli neri e lucenti e nelle magliette stracciate, fino a inzuppargli le ciabatte al punto che i piedi ci scricchiolavano dentro.
«Dovremmo comprarci delle scarpe vere per questo lavoro,» disse Marco ridendo mentre spostava il bordo ingombrante del materasso.
«E con che paga?»
«Quella che ci siamo persi, Polo.»
Mentre procedevano con passo pesante lungo il vialetto di ghiaia che portava agli appartamenti, le palme erano chine sotto la luna del deserto.
«Ci farebbe comodo quella torcia, Polo.»
«È nel camion.»
«Perfetto. Ma che problemi hai?»
«Nessuno che una nuotata rinfrescante non possa rimettere a posto, Marco.»
«Ma tu non sai nuotare quindi come può una nuotata rimetterti a posto?»
«Torno al camion. Prendo la torcia.»
«Non essere stupido. Siamo quasi arrivati.»
«Siamo lontani da quella porta e tu lo sai.» Polo lasciò cadere il suo lato del materasso.
«Okay, okay fra’, ma devi essere un fulmine. Quelli vogliono andare a letto. Niente materasso, niente letto e niente paga.»
«Ora mi vedi, ora non più.»
Marco sentì il fratello che risaliva il vialetto slittando. Si asciugò la fronte, si sventolò con il cappellino da baseball sudicio. Odiava quel lavoro. Odiava quella fatica, quella notte, quel deserto, quella luna. Voleva andare nella grande città dove le luci elettriche risplendevano dappertutto e i clacson suonavano e i camioncini dei taco fiancheggiavano le strade vendendo enchilada e burrito di carne, guacamole e birra, tanta birra. Finito il lavoro, portati tutti i materassi in tutti gli appartamenti potranno partire per Los Angeles. Prendere l’autobus e fare serenate alle belle signore. Una volta arrivati, ne avranno una ciascuno da portarsi sottobraccio. Alla stazione compreranno a ciascuna una rosa, passeggeranno lungo la superstrada, salutando le auto che lampeggiano di sotto. Il rumore del traffico sarà una ninnananna. Le condurranno sotto il cavalcavia, accoccolandosi con loro per la notte. Al mattino compreranno del caffè dal carretto all’angolo e le lasceranno andare per la loro strada o magari chiederanno loro di restare e aiutarli a creare una casa sotto la superstrada con giornali e vecchie riviste, scatoloni e buste di plastica per quando verrà piovere. Sarebbe una vita comoda, una bella vita fino a che… Poi potrebbero trovarsi di nuovo al punto di partenza, quei lunghi viaggi sotto le stelle che fanno venire fame. Lo stomaco gli brontolò. Non mangiavano dal giorno prima. Una volta presi i soldi…
«Marco… Marco…»
Lo sentì chiamare da qualche parte. Suo fratello era da qualche parte. «Dove sei?» gridò. «Arrivo, Polo. Dove sei?»
Lasciò cadere il materasso sotto le palme e ripercorse il vialetto per tornare al camion. Polo doveva essere già lì a quest’ora.
Poi, avvicinandosi alla piscina, vide le increspature. Un cappellino da baseball bianco galleggiava sotto la luna stanca. Quella sera niente paga.
Elaine Barnard è nata a Brooklyn, New York e ha un MFA (Master of Fine Arts) dell’Università di Irvine, California. È autrice della raccolta Emperor of Nuts: Intersections Across Cultures (New Merdian Arts 2018). Ha scritto sceneggiature, flash fiction e i suoi racconti sono apparsi su molte riviste tra cui Anak Sastra, Lowestoft Chronicle, The Apple Valley Review e molte altre. È stata finalista per il Glimmer Train e Best of the Net e ha ricevuto una nomination per il Pushcart Prize e per Best Small Fiction.
Leggi il racconto in lingua originale qui: https://pankmagazine.com/2020/08/13/latinxlit-ebarnard/