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immagine La guerra dei meme (estratto) - Alessandro Lolli

La guerra dei meme (estratto)

(Un estratto del saggio “La guerra dei meme – Fenomenologia di uno scherzo infinito” di Alessandro Lolli, pubblicato da effequ e attualmente disponibile in una seconda edizione aggiornata.)



I meme verbali: tra copypasta e shitposting



Dopo aver visto come delle immagini isolate, prive di testo, possano essere meme inserendosi a pieno titolo dentro un dispositivo linguistico, guardiamo ora ai casi di meme puramente verbali. Come i meme muti, anche questi sono ben più rari dei meme nella loro forma idealtipica di ‘immagini + testo’, ma tutt’altro che ininfluenti. Il copypasta, come suggerisce il neologismo anglofono, è l’atto di copiare (copy) un testo e incollarlo (paste) in un altro contesto. Lo scopo principale è ridicolizzarlo. Al suo grado zero il copypasta è la forma più audace e presuntuosa di bullismo: non ho bisogno di analizzare, argomentare, parafrasare ciò che hai appena detto; è una tale stronzata che mi basta ricopiarla e le persone se ne renderanno conto da sole.

Tu scrivi un cosiddetto ‘wall of text’ in difesa del tuo film preferito? Io te lo copioincollo nei commenti e chi conosce il codice sa che sto dicendo: “guarda la caterva di scemenze che ha appena detto questo, pensa che ci si è pure impegnato”.

Il copypasta può, inoltre, subire un’evoluzione propriamente memetica. Prendiamo un famoso caso italiano.

Il 30 marzo 2018 l’onorevole Luigi Di Maio twitta: “Bene ha fatto la Farnesina a convocare l’ambasciatore francese. Quanto accaduto a #Bardonecchia deve essere chiarito completamente in ogni suo aspetto”; poi fa uno screenshot del tweet, lo condivide come foto su facebook e nella caption ripete: “Bene ha fatto la Farnesina a convocare l’ambasciatore francese. Quanto accaduto a #Bardonecchia deve essere chiarito completamente in ogni suo aspetto”. Questo è uno dei casi tipo che innescano il copypasta e non vertono tanto sul contenuto quanto sulla forma. Si mette in ridicolo l’incompetenza dell’utente che ha scarsa fiducia nei nuovi mezzi di comunicazione e li usa con un’attitudine brutalista, ripetendo più volte la stessa cosa e provocando centinaia di pappagalli che nei commenti copiano e incollano quel breve testo. Tanto forte è stato l’impatto della ‘figuraccia’ di Di Maio che il copypasta è entrato nella sua fase memetica. Gli utenti hanno iniziato a personalizzare il copypasta, trattandolo come una cornice memetica: “Bene ha fatto la Farnesina a convocare l’ambasciatore francese. Quanto accaduto l’altra sera al concerto di Calcutta deve essere chiarito completamente in ogni suo aspetto”; “Bene ha fatto [questa persona] a [fare questa cosa]. Ciò che è accaduto [in questo luogo] dovrà essere chiarito completamente in ogni suo aspetto”.

Come abbiamo osservato nei meme classici, il referente originale è insignificante o perduto. Non importa più se la Farnesina abbia fatto bene o male, né cosa abbia fatto o perché. E neppure se Di Maio sia un personaggio ridicolo o meno. Il canovaccio di “Bene ha fatto” cammina sulle sue gambe.

Se questa verità è autoevidente, vogliamo spingerci oltre e sostenere che, come con i meme muti di singole immagini, anche il copypasta al suo grado zero abbia una natura profonda memetica e linguistica.

Nel 1944, Jorge Luis Borges espose quest’idea in un racconto seminale, intitolato Pierre Menard (autore del Don Quijote de la Mancha), oggi contenuto in Finzioni. Borges esamina la bibliografia di un autore fittizio, tale Pierre Menard, filosofo e poeta ma anche romanziere, sebbene abbia scritto solo alcuni frammenti di prosa e neanche sua.

L’assurda impresa compiuta da Menard è stata riscrivere tre capitoli del Don Quijote parola per parola e a memoria. Borges non si concentra tanto sulla difficoltà ai limiti dell’impossibile di una tale impresa la cui mera esecuzione viene addirittura sottostimata nell’atmosfera di realismo magico che permea ogni suo racconto. A Borges interessano invece gli effetti di questo copypasta perfettamente eseguito a memoria. Mettendo l’uno accanto all’altro passi scelti dal Don Quijote di Cervantes e di quello di Menard, che non differiscono neppure nelle virgole, analizza come abbiano un portato stilistico e contenutistico completamente diverso per via dei rispettivi contesti. “Il testo di Cervantes e quello di Menard sono identici dal punto di vista verbale ma il secondo è quasi infinitamente più ricco[1]”. Servendosi di questo esempio fantastico, Borges dimostra come un testo non è mai chiuso in sé stesso ma in costante dialogo con la sua epoca, i suoi predecessori, i suoi contemporanei e persino i suoi postumi.  Una volta che un testo viene riproposto come se fosse attuale, inizia a parlare un’altra lingua.

La mente collettiva di Internet questa cosa l’ha capita istintivamente e sa che alcune ripetizioni non sono semplici ripetizioni. Non si tratta infatti di citare il testo, di indicarlo nella sua cornice di origine, come nelle infinite ristampe del libro di Cervantes, ma di riproporlo come se fosse nuovo.

Girovagando tra i gruppi di memer incalliti, cinici dissacratori di coloro che chiamano normie, capita di imbattersi in lunghi muri di testo completamente fuori luogo. Non ci sono note introduttive, prefazioni, frontespizi, copertine che ti spiegano “questo è il post di quel normalone di Cervantes che ho trovato in un gruppo di sostenitori del Partito Democratico”: lo devi capire da solo, connettendo tutti gli elementi contestuali; sono dentro un gruppo di memer, lo sta postando un utente con Asuka di Neon Genesis Evangelion come foto profilo, questo testo non è davvero questo testo. Proprio come i meme muti figurativi, i copypasta acquistano il loro senso pieno interagendo con l’ambiente di destinazione, non parlano per sé stessi, ma di sé stessi.

Resta adesso da affrontare un ultimo fenomeno, che ha visto una crescita sorprendente negli ultimi anni: lo shitposting o textposting.

Un fenomeno che, apparentemente, tocca marginalmente l’argomento di questo saggio, visto che i suoi legami con la memetica sono più culturali che semiotici. A differenza di tutte le forme memetiche finora analizzate, lo shitposting non presenta meccanismi memetici in nessuna misura. Nondimeno, i suoi legami materiali e ideologici con la community dei memers non potrebbero essere più forti, tanto da poterlo definire la ‘forma letteraria’ della meme scene.

Nella community dei memers, quando si dice ‘shitposting’ spesso e volentieri si intende ‘textposting’, che ne è il sottoinsieme più riconoscibile, tanto da diventarne antonomasia. La definizione generale – persino generica – di shitposting poco ci dice delle peculiarità stilistiche del textposting. Secondo l’American Dialect Society, che ha eletto Shitposting parola dell’anno del 2017, si tratta di “Pubblicazione di contenuti inutili o irrilevanti, con lo scopo di far deragliare una conversazione o provocare gli altri”. L’irrilevanza, l’inutilità e la quantità di contenuti postati hanno un loro peso nella caratterizzazione dello shitposting, ma poco ci dicono dello stile e lo scopo che gli viene attribuito è addirittura fuorviante. Torneremo più avanti sull’aspetto quantitativo della pratica.

Ma è lo shitposting testuale a costituire un unicum, il cosiddetto textposting, che merita quindi una trattazione adeguata.

Il textposting, infatti, da questa intensificazione quantitativa ha prodotto uno scarto qualitativo. Le forme di scrittura online che rientrano nella categoria di shitposting condividono una sere di caratteristiche stilistiche, ben identificate da Elena Armaroli nella sua tesi di socioloingistica intitolata Giocare a scrivere male. Un’analisi sociolinguistica del textposting in italiano, AA 2018-2019, Alma Mater Studiorum Bologna. Quello di Armaroli è uno dei pochissimi lavori accademici che cerca di fare il punto di questa specie di avanguardia letteraria proprio nel suo farsi. Lo fa analizzando materiale da un pugno di pagine Facebook che hanno fatto la storia del textposting italiano e sono tuttora rilevanti: Merdapostaggio, Pagliare hhhposting (in seguito solo Pagliare), Cinefirns, Dodoria figlio di troia. L’analisi di Armaroli mette in luce una destrutturazione continua delle punteggiatura e di altri segni ortografici come accenti e apostrofi, una insistita e affascinante mimesi del linguaggio orale, sia nel suo lessico che nella sua sintassi e altre caratteristiche formali che avvicinano la prosa dello shitposting a un tentativo generazionale di flusso di coscienza, adattato al singhiozzo espressivo del Social network. Armaroli non manca di notare come l’attuale shitposting è debitore, a livello espressivo e stilistico, della prima forma letteraria dell’ambiente memetico, il cosiddetto greentextposting che è però fortemente localizzato sull’imageboard 4chan, piattaforma che diede i natali ai meme in quanto tali, e che approfondiremo in seguito. Si trattava (e si tratta) di brevi storie scritte in verde e costruite con frasi immediate messe in colonna e precedute dal simbolo / > /. L’impressionismo e l’urgenza comunicativa accomuna entrambi gli stili di scritture, causando una riduzione della frase ai suoi minimi termini, tagliando preamboli, introduzioni, contestualizzazioni, ma anche verbi, articoli, soggetti.

Ma l’aspetto eminentemente sociale è altrettanto importante per avere una chiara comprensione del fenomeno: lo shitposting non vive solamente attraverso pagine Facebook o account Twitter che si pongono più o meno dichiaratamente come progetti artistico-letterari; è anche, e soprattutto, uno stile generazionale che ha preso a circolare su profili privati, spesso con un pubblico ridotto e poco partecipativo.

In questo senso, diventa fondamentale capire che tipo di modo di approccio Social rappresenti il fare shitposting. Lungo tutta la sua tesi, Armaroli rintraccia affinità e divergenze tra il gergo del textposting e una più diffusa e generica ‘lingua italiana da Social network’. Rileva che le affinità esistono ma le divergenze sono ciò che danno allo shitposting la sua vera identità.

Vorremmo qui spingerci oltre e dichiarare che lo shitposting nasce come reazione a una cosa che possiamo chiamare Tipica Lingua da Social.

La Tipica Lingua da Social è quella che insegnano i guru della comunicazione online e che uniforma i post dei vari personaggi pubblici, ma che dà il meglio di sé quando il registro viene leggermente ‘abbassato’ al fine di raggiungere una vicinanza con gli interlocutori. Personaggi come Saverio Tommasi e Lorenzo Tosa hanno costruito il loro brand sulla capacità di cogliere perfettamente questo tono. Ma se loro sono i fuoriclasse della mediocrità, questa lingua è appunto la mediocrità per paio di generazioni, quelle dei nativi e quasi-nativi digitali, dei millennials e degli zoomer[2], che la riproducono senza difficoltà. Nel corso degli anni dieci, tutti hanno imparato inconsciamente a scrivere e a pensare in questa lingua, a raccontare aneddoti, esprimere opinioni politiche, entrare in polemica con quel preciso tono di voce che deriva dalla struttura stessa della piattaforma su cui si esprimono. Quella voce, che non è più la nostra voce ma è la voce del Social network, ci sale in gola ogni volta che arringhiamo i nostri seguaci dal piccolo palco che è il nostro profilo.

E lo shitposting è un atto di insubordinazione contro questo mondo.

La sua prosa più tipica, piena di colloquialismi e gergalismi che quasi ne minano la comprensibilità, è anche una presa di distanza dalla vocazione ecumenica dei post dei Social che mirano a massimizzare l’attenzione, a farsi leggere da quanti più utenti possibili, a fare incetta di approvazione e di consensi. Singolarmente, sia la prosa ma anche l’uso in quanto tale che gli shitposter fanno dei Social ricorda da vicino quello delle fasce anagraficamente escluse dalla rivoluzione digitale. Questi millennial e zoomer prendono a scrivere come dei boomers che hanno un rapporto istintivo, non mediato, ingenuo insomma, col mezzo. Quelli che, per intenderci, scrivono “Ciao come stai” nei commenti della foto al mare. Ecco: un registro del genere lo può usare anche uno shitposter. E acquista importanza, come anticipavamo, il lato quantitativo, l’intensificazione dell’attività che è fondamentalmente postare tanto e in maniera inconsulta. Quella logorrea virtuale è un modo di fottere (e fottersene del) l’algoritmo. A differenza degli specialisti dei Social, che postano a orari precisi e misurando ogni intervento, lo shitposter inonda i Social di brevi, insignificanti, curiosi, surreali, assurdi pezzi di sé stesso. Manifesta sia un’urgenza creativa ma anche la volontà di disertare la corsa al like. La cascata ininterrotta di contenuti distrugge l’ansia da prestazione, dissemina e disintegra il palco su cui tutta la mia generazione sale titubante alle 10, alle 14 o alle 18, quando l’algoritmo ti premia, cercando di prendere quanti più consensi possibili, regolando la serotonina della giornata a seconda dei risultati.

L’attitudine da ‘boomer’ nei confronti dei Social affascina i nativi digitali che possono però abbracciare quella sincerità comunicativa solo attraverso un movimento dialettico. David Foster Wallace la chiamava ‘New Sincerity’[3]: un riflusso del postmoderno, che ha incorporato e superato il postmoderno stesso come un’antitesi necessaria, e che solo con questo marchio nel cuore può tornare a esprimersi ‘normalmente’. Ed è qui il legame più esplicito con la cultura memetica: lo shitposting viaggia a due o più layer. È un linguaggio strutturalmente post-ironico, la voce di qualcuno che ritorna, che si finge qualcun altro per esprimere chi davvero è. L’avanguardia di massa di una generazione che si ribella alle forme di socialità impostegli, che cerca un modo sincero di percorrere il campo di forze in cui si trovano a vivere, sabotando internamente la sua grammatica implicita.




Note:

[1] J. L. Borges, Finzioni, Adelphi, Milano 2003.

[2] Sebbene non ci sia un accordo generale sui confini precisi di queste generazioni, l’ipotesi che trova più consenso vede la generazione dei millennials abbracciare chi è nato tra il 1981 e il 1996, mentre per gli zoomers, o generazione z, tra il 1997 e il 2012. I baby boomers, invece, sono gli ‘anziani’, le persone nate durante il boom di nascite della seconda metà del Novecento, orientativamente dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Sessanta. La sentenza diventata tormentone “ok boomer” è proprio l’epiteto che millennials e generazioni successive rivolgono alla generazione dei baby boomers, ritenendola responsabile della penosa situazione che si trovano a vivere.

[3] D. F. Wallace, “E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione”, in Tennis, TV, trigonometria e tornado, minimum fax, Roma 1997.


Per ulteriori informazioni o per acquistare il libro, visita il sito dell’editore effequ: https://www.effequ.it/saggi-pop/la-guerra-dei-meme-nuova/