Il sogno la strada il vagone
«Insomma, ti stavo dicendo di ’sto sogno che ho fatto.»
Jacopo non toglie gli occhi dalla strada. «Mh-mh» si limita a dire. Tiene il volante con due mani. Scuote appena la barba.
Indico dietro. «Ma Alberto sta ancora dormendo?»
«“Ti tengo sveglio io. Ti tengo sveglio io.”» Fa il verso. «Usciti da Pisa e imboccata l’autostrada era già morto. Gridava solo “Vana chianooo, oooh.”»
Scoppio a ridere e ripeto: «Vana chiano, vana chiano.»
«Oh! ’Sto sogno?»
«Allora. Sì. Siamo al Sabbia nelle mutande…»
«Bello il Sabbia. ’St’anno ci torniamo.»
«Bello. Sì,» dico. «Ma ascolta. È pomeriggio, siamo a Cozze con Luciano a scaricare pallet e amplificazione, ecc. Ma che cazzo è sta roba?» Indico lo stereo. Dei synth enormi vengono fuori dalle casse.
«Oh! Gli Stadio!» mi fa Jacopo.
«Gli Stadio?» dico.
La testa di Alberto fa capolino da dietro i sedili. «“È strepitosa, Donna bambina, Donna vedrai, bambina se lo sai.”» Si è svegliato solo per cantare l’inizio di Acqua e sapone e torna subito giù.
«No, ma dico? Ma veramente gli Stadio?»
«Eh, oh, Super Mega compilescion di viaggio…» Jacopo sorride, non ci crede neanche lui.
«Ho capito, ma siamo al secondo giorno di tour e già ci andiamo giù col trash?»
«Terzo…»
«Va bene, terzo,» rispondo. «Ma aspettiamo almeno di arrivare in Germania per fare gli italiani. Non puoi mettere Lark’s Tongues in Aspic?»
Gli occhi di Jacopo sono incollati alla strada. La luce della primavera è tenue, riscalda appena. Il pollice mostra il retro del suo sedile. «Dei King Crimson ho solo la copia di Red fatta da mio padre, con le tracce tutte a cazzo. Prendi il fattapposta dei CD e decidi.»
Infilo un braccio dietro il sedile del guidatore, mi contorco per non svegliare la povera anima di Alberto che ronfa nella sua felpa grigia e riesco a tirare fuori il raccoglitore delle meraviglie. «A Short Apnea?»
«Vai!»
«Bomba!»
«Oh, beh? Beh? ’Sto sogno?»
«Sì, hai ragione.» Sfoglio le pagine di plastica del raccoglitore blu. Arrivo alla copia originale de Illu ogod ellat rhagedia, la sfilo e inserisco il cd nello stereo. «Mamma che disco!»
«Madonna!»
Sull’incipit sintetico e fuzzoso del disco riprendo a raccontare.
«Allora, siamo al Sabbia nelle mutande, con Lucio che facciamo ’sti giri per caricare i pallet e gli amplificatori e tutto il resto, no?»
«Il generatore…»
«Esatto, tutto il bordello solito: sudi, gli ammortizzatori delle macchine affanculo sugli scogli, le zanzare, le birre calde e il ghiaccio che chissà quando arriva, Turbo che smascella…»
«…e il Mostro? Ci sta il Mostro?»
«Non mi ricordo mo’ se ci sta il Mostro. Ma seguimi, che non è questo il fatto.»
«E Giuseppe, ci sta Giuseppe?»
Comincio a irritarmi. «Sine, Ja’, ci sta pure Giuseppe, ma questo è il contesto, non è il fatto del sogno. Fammi raccontare.»
«Va bene, va bene.» Sorride. «Oh, ricordiamoci che dobbiamo comprare la Schuko.»
«Porca puttana, la Schuko al contrario!» Mi porto la mano alla fronte. «E dire che la tenevo a Taranto.» Faccio una pausa, mi mordo il labbro inferiore. «Che poi non è detto che ci serva. Presa di merda.»
«Te la vuoi rischiare?»
«No. Fai che quando ti fermi proviamo a vedere in un autogrill se ce l’hanno.»
«Va bene,» mi dice. Poi rallenta di colpo, borbotta in dialetto, inserisce la freccia e sorpassa un veicolo malandato.
«Vana chiano, oh!» gli grido.
Scoppiamo a ridere.
«Beh? Beh? ’Sto sogno?»
Allungo la mano sotto lo stereo e afferro il pacchetto di Diana Blu morbide. «Io prendo, eh? Poi compro io il prossimo.»
Jacopo annuisce.
Mi accendo la sigaretta. «Allora, vabbè, hai capito. Di colpo diventa sera e siamo stanchi. È chiaro che abbiamo fatto tutti i preparativi del caso, eccetera. Insomma siamo pronti: c’è solo da iniziare a suonare, ma non so come cazzo è, ci dimentichiamo di fare il soundcheck.»
Jacopo sgrana gli occhi. «Meglio, no?»
Io rido. «Sì, certo meglio, tanto più che non è che si fa tutti il soundcheck al Sabbia, ma aspetta di sentire il fatto.»
Jacopo mi interrompe con l’indice della mano destra che indica un segnale al limitare della strada. Un autogrill a cinquemila metri. «Che faccio?»
«Che ora è? Dove cazzo siamo?» chiedo.
«Sono quasi le 11 e abbiamo appena superato Trento.»
«Ammazza! Ora che finisce l’Italia addio Schuko al contrario.»
«Dici che non ce l’hanno in Austria?»
«Hanno le prese giuste, in Austria,» rispondo.
«Già! Vabbè, è presto ancora. Caffè?»
Mi volto a guardare Alberto. Dal cappuccio emerge solo la punta del nasone. Il resto del piccolo corpo è rannicchiato tra la metà del sedile e la portiera posteriore dal lato guidatore. Grido: «Albe’! Caffè?»
Alberto solleva leggermente il capo. Schiude gli occhi e annuisce.
Mi giro a guardare Jacopo e mi limito a sorridere.
«“Ti tengo sveglio io, ti tengo sveglio io.”» dice lui. «Undici ore e mezzo di strada ci dobbiamo sucare per arrivare a Lipsia. Dopo mezz’ora stava dormendo.»
«Vabbè, dai,» gli faccio. «Io qualche ora di sonno me la sono fatta. Vuoi il cambio?»
«Mai!»
Alzo le mani. «D’accordo, ma se stai morendo, dimmelo. Siamo partiti alle sei con quattro ore di sonno. Non voglio morire sul Brennero, né al di là delle Alpi.»
Jacopo inserisce la freccia. «Esco, dai. Schuko di merda!»
Alzo gli occhi al cielo. «Non riuscirò mai a raccontarti questo sogno.»
Dopo un paio d’ore e quattro autogrill Alberto dorme ancora e della Schuko neanche l’ombra.
«L’unica è uscire in una città,» dice Jacopo. «Dobbiamo trovare un supermercato.»
«Ma cazzo. Non saremo mai lì per le sette.»
Jacopo indica fuori dal finestrino, sempre alla mia destra.
«Brennero,» legge.
Mi volto e lancio un altro urlo: «Albe’! Hai fame? Usciamo?»
Alberto si mette seduto e si toglie il cappuccio. «Dove siamo?»
«Brennero,» rispondo.
Annuisce e sembra essersi svegliato del tutto.
«Albe’,» fa Jacopo.
«Eh?»
«Non abbiamo ancora trovato la Schuko.»
«E io non sono riuscito ancora a raccontare un cazzo di sogno,» mi inserisco.
Alberto ride. «Brennero ultima frontiera, allora.»
Siamo seduti su una panchina di pietra nella piazza della cittadina deserta. L’aria è fresca nonostante non ci sia una nuvola. Siamo meridionali e non ci possiamo abituare a questi strani connubi climatici. La poca gente che incrociamo ci guarda di traverso e parlotta in tedesco, o in un gergo simile, o almeno questo è quello che avvertiamo noi. Noi, da parte nostra, siamo un barbuto rossiccio con dei jeans viola stretti, un tipo anonimo con quattro peli sul grugno e quattro sulla testa, jeans e maglietta e… cazzo, Alberto ha ancora il pantalone del pigiama.
Addentiamo i panini.
«Porca puttana, la Schuko,» impreca Jacopo.
«Vabbè, ma forse non ci serve,» faccio io.
«Ma perché non vi siete fermati all’autogrill?» chiede Alberto attirando i nostri sguardi inquisitori.
«Dobbiamo trovare un supermercato,» dice Jacopo mentre si insozza la barba di briciole.
«E dagli! Dove lo trovi un supermercato aperto qui, a quest’ora.»
Tutt’intorno è silenzioso. Al di là delle architetture precise, grigie e mute di quel paesino, le montagne ancora innevate si stagliano sul fondo del cielo azzurrissimo.
«Chiediamo,» fa Alberto. Si alza e raggiunge un signore che pedala lentamente su una bici da città. «Scusi, lei?»
Il tipo si ferma, poggia un piede per terra. «Dica.»
«Sa dove possiamo trovare del materiale elettrico da queste parti?»
«Eh, da queste parti no.» L’accento dell’uomo ci sembra quasi alieno. «Ma c’è un OBI appena fuori dal paese.»
Io e Jacopo ci guardiamo e due sorrisi si allargano sulle nostre facce sozze. L’uomo si profonde nel darci indicazioni verso il tanto agognato nonluogo: una bella e rassicurante catena di ferramenta, uguale in Puglia come in Trentino. In Puglia abbiamo il Brico, ma sempre nonluogo è. Sia lodato il cielo!
Ringraziamo l’uomo e corriamo alla macchina. Troviamo l’OBI e la Schuko.
Appena fuori ricevo una chiamata. «È Superfreak,» dico. «Pronto, Giuse’!»
«…»
«Sì, tutto bene. Siamo un po’ in ritardo.»
«…»
«A Brennero.»
«…»
«Non sul Brennero. A Brennero proprio. È un paesino, anche se praticamente deserto.»
«…»
«E lo sai. Poi ’sta cazzo di Schuko.»
«…»
Rido. «Senti, devo scappare che altrimenti non arriviamo più. Ti aggiorno con messaggini quando siamo di là e poi ti chiamiamo quando torniamo in Italia. Cia’!»
Jacopo scuote il capo. «Era uscito dal lavoro? Passeggiatina?»
«Eh, sì. Lo sai.» Sorrido. «Mi ha detto una cosa da ridere.»
«Che cosa?»
«Perché quando suonate con Alberto siete HysM?Trio e quando suonate con me siete HysM?Duo più Superfreak?»
Jacopo e Alberto ridono.
«Che coglione!» sussurra Jacopo. «Dai, sciamane ca è tardi!»
Ci precipitiamo nella Dacia Logan. Ora possiamo finalmente, a cuor leggero, oltrepassare il confine con l’Austria e io posso riprendere a raccontare ’sto cazzo di sogno.
Alla frontiera, che non c’è più perché ora c’è l’Unione europea, Jacopo sta tremando. Io corrugo la fronte e non capisco il suo nervosismo.
«Che hai, oh?» chiedo.
«Ma cazzo, hanno i mitra quelli là.»
«Vabbè, Ja’, sono sbirri. Rilassati.»
«Rilassati un cazzo.» Si agita. Si mette le mani nei pantaloni. Apre il cruscotto. «La carta d’identità dove cazzo… Eccola!»
Uno dei poliziotti ci fa segno di accostare.
«Cazzo, vedi? Cazzo. E ora cosa gli dico a Fritz, qua?»
«Vediamo che ci chiede e capiamo. Abbiamo anche la vignetta per l’autostrada, che ci devono dire?»
«Eh, la fai facile, la fai facile.»
Mai visto così agitato, Jacopo. Neanche quando deve andare a fare gli esami all’università e sa che il professore gli romperà le palle.
Alberto dietro sta parlando al telefono con Gigi, o con Biagino, non abbiamo capito. Non ha seguito tutta la scena. Da quando si è svegliato ha ricevuto non so quante chiamate. Sta espatriando per un paio di giorni e sta avvisando tutti. Manco andassimo in guerra. Quando chiude fa: «Ma tu non dovevi raccontare un sogno?».
Jacopo grugnisce.
«Aspe’,» gli faccio io. «Appena ci rimettiamo in strada.»
«Ma siamo già in Austria?» chiede.
«Eh già!» risponde Jacopo stizzito. Osserva lo sbirro che si avvicina. «Madonna, mo’ che dico? Questo mo’ ci fa scaricare la macchina, madonna, non arriviamo più.»
«Niente, Ja’. Se parla in inglese, parlo io.»
Il tipo col baschetto di lato si avvicina al finestrino, ci squadra, squadra verso la parte posteriore della macchina. Si rimette dritto. Grida qualcosa al collega e poi ci fa cenno di andare.
«Visto?» gli faccio con tono di rimprovero.
«Oh, ma che cazzo vuoi? È la prima volta che esco dall’Italia.»
«E la gita di quinto liceo, allora?»
«Là non guidavo io. Anche se, madonna, il bus a due piani…»
Ridiamo.
Mi giro verso il nostro terzo. «Albe’, non puoi chiamare più mo’.»
«Eh. All’autogrill fermiamoci e fammi mettere avanti.»
«La prossima volta ci fermiamo in Germania,» gli faccio.
Per tutta l’autostrada da un capo all’altro dell’Austria riesco a malapena a riassumere ad Alberto quel poco di sogno che ho già raccontato a Jacopo. Al confine con la Germania non ci sono posti di blocco; un problema in meno. Ma a me e al racconto del mio sogno non va benissimo. Vengo interrotto da fermate per pisciare, per bere caffè lungo tedesco, per commentare il fatto che l’autostrada sia senza limiti di velocità e gratuita ma il cesso pubblico no, Alberto che bestemmia in un salentino più che estremo mentre perde tempo a cercare sulla mappa la città di Ausfahrt per capire dove cazzo siamo, prima di renderci conto che non è altro che la parola tedesca per indicare l’uscita dall’autostrada e altri discorsi su come sono andati i concerti di Bologna e Pisa dei giorni precedenti e su come andranno i prossimi e di quanto siamo fottuti nel cervello ad aver accettato due serate a milleduecento chilometri di distanza senza un day off in mezzo, e che al ritorno ci aspetta un Berlino-Parma, che non è niente male, ma che almeno non dobbiamo suonare quindi quando arriviamo arriviamo. E intanto sul piatto gira una playlist da psicolabili. In ordine sparso: Black Sabbath, XTC, la sigla della telenovelas Sentieri, Papa Roach, Suicide, Blondie, This Heat, John Coltrane, Pere Ubu e poi gli italiani: Fuzz Orchestra, Bogong in Action, Bokassà, Bread Pitt, Domenico Modugno e Gianna Nannini dei mondiali del ’90.
«Insomma,» riprendo quando ormai abbiamo superato Monaco di Baviera, «va che cincischiamo per tutto il tempo tra la gente e i musicisti e alla fine tocca a noi, Giuseppe mi strattona e mi chiede dov’è Jacopo, ma Jacopo chissà dov’è, ma intanto io devo cercare il trolley arancione con i pedalini e i cavi e non trovo il trolley e intanto il tempo passa e gli occhi del pubblico sono grandi e mi guardano inquisitori.»
«Ma come, chissà dove sono?» dice Jacopo, quasi offeso. Mi sbircia nello specchietto retrovisore.
«E cazzo ne so, mica l’ho fatto io il sogno. Cioè, l’ho fatto io, ma vabbè, hai capito.»
«Beh? Beh? Vai avanti,» fa Alberto.
«E niente, e allora nella sabbia, su un telo di mare tutto sporco, inizio a impiastricciare i pedalini che non vogliono stare dritti, e poi inizio a imbrogliare i cavi e non so quanto tempo passa perché Giuseppe mi incalza, dice che dobbiamo iniziare.»
«Ma Giuseppe non è un tipo da stress,» dice Jacopo.
«Lo so che Giuseppe non è un tipo da stress. Io sono un tipo da stress, e infatti io ho fatto ’sto cazzo di sogno,» quasi alzo la voce, ma poi mi rendo conto che non è importante, che ne dobbiamo ridere, e allora continuo. «Vabbè, e allora sto groviglio di cavi che più ci metto le mani dentro e più cresce e diventa un mostro gigante, un inturtogghio nero di jack che non ne vuole sapere. Poi finalmente tu torni con una birra in mano e tutto tranquillo con le tue bacchette.»
«Aspetta!» grida Alberto. «Con una birra?»
Annuisco. Jacopo sorride. «Sì, vabbè, nel sogno non sei astemio. Può capitare nei sogni, no? Oh e dai, che non ho finito. Fammi dire. Allora il groviglio di cavi e l’ampli che fischiotta. Alla fine con la santa pazienza e il tempo che si dilata riesco a preparare tutto e tu mi fai: “Ma mi devo montare i piatti miei” e quasi ti mando affanculo e tu mi rispondi che non è colpa tua se non abbiamo fatto il soundcheck e poi botta e risposta e gli occhi del pubblico sempre più grandi, posso sentire la loro volontà di andarsene via, o di iniziare a fischiare per far arrivare un’altra band e io maledizione non so come fare. Alla fine riesco ad attaccare il basso e mi devo accordare e quasi mi sembra di sentire uno dal pubblico che mi prende per il culo, tipo “Ah, accordi pure, qua facciamo notte!” e allora mi viene un’ansia che non immaginate.»
«Immaginiamo, immaginiamo,» fa Alberto.
«Ah, vero. Tu hai gli stessi problemi intestinali miei,» dico. «E insomma, sì, si va in quella direzione. Devo andare al cesso. E tutta la questione ora è che devo cacare. Non la tengo. E farla al Sabbia, voi sapete, non è semplice. Se si chiama Sabbia nelle mutande ci sarà un motivo. E insomma sento che cerco di trattenerla. Mentre sono pronto, faccio risuonare due corde, il suono è buono, cerco di distrarmi, ma le dita di Jacopo sui gommini dei piatti girano così lente che niente, penso proprio che esploderò da un momento all’altro. Alla fine mi guarda, sorride e attacchiamo una impro noise bellissima – è davvero un sogno, cazzo! – e come per incanto tutta l’ansia e le ossessioni spariscono.»
Silenzio nell’abitacolo. Solo il ronzio dell’auto e un ricordo lontano dei Flying Luttenbachers che proviene dallo stereo.
Incrocio le mani sul petto. «Beh? Che è ‘sto silenzio?»
Jacopo mi guarda nello specchietto retrovisore. «Non hai raccontato niente di diverso da quello che accade ogni volta che andiamo a suonare.»
Lui e Alberto scoppiano a ridere.
«Gné, gné,» smorfio io. «Fai lo scemo, fai lo scemo. Lo sai che sono capace di cacare in ogni autogrill e locale in cui ci fermiamo.»
«E non solo,» mi fa Jacopo.
«E non solo,» ribadisco io, facendo il finto offeso. «Tu mi invidi e basta.»
«Già. Io fuori da casa mia proprio niente.»
Alberto sbuffa un risolino. «Vedrai come ti piacerà non avere il bidet a portata di mano.»
«Madonna!» fa Jacopo. «Vuoi chiamare Ralph? Siamo quasi a Lipsia, per capire dove dobbiamo uscire.»
Annuisco e afferro il mio Nokia, prendo il quadernetto rosso dove ho abbozzato un marcissimo tour plan e compongo il numero del nostro ospite.
Ralph è un tipo rasato con una cresta appassita sulla testa. Gli occhi piccoli, di ghiaccio, il nasino e un’espressione truce. Però sorride e subito capiamo che è un tipo in gamba. Il tempo di stringerci la mano, scambiare due parole che servono più a tastare il livello di inglese reciproco che lui si mette a cassetta del suo furgoncino Volkswagen azzurro e si fa seguire.
Raggiungiamo questo Wagenplatz. Un posto incredibile. Uno spiazzo enorme dove ci sono solo roulotte e vagoni dismessi del treno e della metropolitana riadattati a piccole abitazioni. Il tutto completamente immerso nel verde. Di tanto in tanto, tra le fronde, spuntano enormi sculture in ferro riciclato, mostri e robot composti da vecchie lamiere saldate tra di loro, pezzi di carcasse abbandonate che riprendono vita in una rugginosa forma d’arte.
È il tramonto e questo posto ci rapisce lo sguardo. È una comune, o un centro sociale autogestito e assolutamente sui generis; una roba che per tre pugliesi è allo stesso tempo aliena e profondamente familiare.
Parcheggiamo all’esterno di un capannone basso, una delle pochissime strutture in muratura. Ralph ci porta tre birre e ci porta nella stanza dove suoneremo e dopo di noi ci sarà il DJ set, ci indica il palco – uno spazio di cinque o sei metri quadri dove montare la strumentazione – e ci dice che abbiamo tutto il tempo che vogliamo per scaricare e fare il check. Poi si dilegua, deve fare altre commissioni per la festa. E in quel momento capiamo che è il suo compleanno e che noi siamo l’attrazione principale.
«Ja’, tu non bevi,» gli faccio.
«Vabbè, ogni tanto dai,» mi risponde. «Sono in Germania, che devo fare?»
Scarichiamo amplificatori, prepariamo il palco, la Schucko non ci serve, facciamo due suoni, proviamo un paio di mezzi pezzi. Il sound della stanza è ottimo. Siamo stati rapidi ed esaltati nonostante la stanchezza e la strada. È la nostra prima data all’estero. Portiamo in Europa la nostra musica. L’adrenalina è assai.
Alberto, per tutta risposta, ha ancora il pantalone del pigiama.
Mentre ceniamo una roba vegan sopraffina Jacopo mi chiede di fare la scaletta.
«Allora. Però devi fare la scaletta come la capisco io.» Afferra un pezzo di carta dal quadernetto del tour plan, una bic e inizia a scrivere «Primo pezzo: catene piatti, poi…»
«“Catene piatti”?» chiede Alberto.
Rido. «Sì. Lui non sa bene i titoli dei pezzi. Si segna quello che deve mettere lui per preparare la batteria e così poi si ricorda le parti.»
«Ho capito,» fa Alberto. Ruba anche lui un pezzetto di carta. «E io come me lo devo segnare?»
«Dobermann,» rispondo. «È il primo pezzo che facciamo di solito.»
Vado avanti per una decina di minuti così. A tradurre i titoli dei pezzi nella lingua dell’uno e dell’altro, a canticchiare e a mimare le parti e gli inizi, a dire cose tipo “io prendo il sax, qua tu vai di tamburello e strumentini, Jacopo qua devi usare il microfono a contatto,” che da fuori, a sentirci sembra un casino, ma poi quando si inizia diventa tutto fluido e chiarissimo. Questo almeno, nella maggior parte dei casi.
Ralph si avvicina e ci fa cenno che è ora di iniziare. Ci alziamo e la mia mente è come se si alienasse dall’ambiente che mi circonda. I pochi secondi che preludono al concerto si estendono in un infinito scorrere di fotogrammi dilatati. Luci rosse e gialle che si fondono, tintinnii di bottiglie, risate come eco lontane. È come in un sogno. Come in quel sogno che ho raccontato ai ragazzi lungo la strada. Ed ecco che riemerge quella puntina di angoscia. Quella che nel sogno si è manifestata sotto forma di sguardi inquisitori, attese sterminate, jack incontrollabili, amplificatori ribelli e urgenze fisiologiche.
Poi questa piccola parentesi nella realtà si chiude. Le luci sul palco rasoterra si abbassano. La musica del DJ si abbassa. Jacopo si sistema sul seggiolino e mi sorride. Lo show sta per iniziare.
Il rock d’avanguardia, il noise, l’improvvisazione sono creature strane. Ti portano in posti come questo, dove il pubblico di certo si aspetta qualcosa di più hard-core, ma ti apprezza comunque. Se sei discreto il pubblico – quel poco che si presenta ai live delle band underground – ti riesce a sopportare anche nei locali “normali,” diciamo, quelli dove i concerti li chiamano “serate.” In ogni caso sei fuori luogo quasi sempre, per un motivo o per l’altro, perché sei troppo morbido o perché troppo ostico.
Stasera però l’atmosfera è perfetta, come poche volte ci è capitato prima. Ci sono una quarantina di persone che non vedono l’ora che iniziamo, la sala è piena e non voglio dire che “Ah, in Germania, guarda quanto sono avanti, hanno la tradizione del krautrock, loro, hanno inventato l’industrial e la musica psichedelica, se non ci capiscono loro,” però bisogna ammettere che Ralph ha fatto un ottimo lavoro e che se questi sono i suoi amici non ha nulla da temere per il resto della sua vita.
Jacopo si prende il tempo per attorcigliare la catenina sul ride, io faccio partire due note lunghe e liquide di Microkorg, Alberto (ancora in pigiama) ha imbracciato la chitarra e io con lui, ci guardiamo e aspettiamo il quattro per attaccare con un riff heavy-prog dal gusto acido e sferzante. Ci fermeremo tra meno di un’ora, sudati e affranti da una giornata bestiale, ma felici. Milleduecento chilometri di strada, un sacco di benzina e di cazzate, problemi da risolvere e situazioni nuove da affrontare. E per cosa? Per una cinquantina di minuti di concerto, ma non solo per questo, ma per il pantalone del pigiama di Alberto, per le sigarette da comprare alle tre di notte, per simulare con una mazza di scopa, la mattina, appena alzati, l’assolo di This is the time di Billy Joel, per il gergo che si viene creando giorno dopo giorno, quando stai ventiquattr’ore su ventiquattro con altre due persone, la maggior parte delle quali in auto, per più di dieci giorni, per litigare con le tipe tedesche perché apprezzano Heidegger e tu invece sei dell’altra parrocchia, per vedere posti e conoscere persone che non avresti mai immaginato esistessero. Per affrontare l’ansia e le ossessioni, e fargli il culo. Jacopo litigherà in un inglese tutto suo con due donnone tedesche a proposito della recente partita Inter-Schalke 04, Alberto dovrà convincere uno spilungone ubriaco e sputazzante che non è il caso che gli firmiamo degli autografi e che no, decisamente non assomigliamo ai Pink Floyd, e io mi tratterrò a sbevazzare fino all’alba per poi trascinarmi, per ultimo, barcollante, nel vagone dove dormiremo.
Questa volta, però, senza sogni contorti.
Stefano Spataro nasce a Taranto nel settembre del 1985. Ha una laurea in Filosofia e un dottorato in Storia della scienza. Ha pubblicato articoli storico-scientifici sulla parassitologia nel XVIII secolo e sulla rappresentazione della morte in TV. È un musicista attivo nel panorama underground italiano da quasi dieci anni e ha all’attivo decine di dischi in solo e con diversi progetti di avant-rock e di musica sperimentale.
Dal 2016 si dedica seriamente alla scrittura, in particolare di genere. Pubblica diversi racconti su riviste online e cartacee, tra le quali Crapula Club e la nuova carne. Nel 2018 e nel 2019 due suoi racconti arrivano finalisti al Premio Short Kipple.
Nel 2019 Prospero Editore pubblica il suo primo romanzo, Attis, Sogni dal terzo pianeta, una space opera che si rifà alla tradizione fantascientifica dickiana e asimoviana. Ha di recente terminato un altro suo romanzo di genere cyberpunk a sfondo musicale.
Nel 2020 un suo racconto di fantascienza è stato pubblicato sull’antologia Prisma vol.02, edito da Moscabianca edizioni.
Nel 2019 ha curato l’antologia di racconti Carnaio.
Dal 2018 scrive articoli e recensioni per diverse riviste web, come Wired Italia, Penne matte, Crapula Club, la nuova carne, Andromeda, Cose da altri mondi.
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[…] un mio racconto/memoir di ambientazione musicale. Vi lascio l’incipit qui di sotto, ma andate a questo link per leggerlo per intero, e leggere gli altri bellissimi racconti che sono lì raccolti. Dopo […]