La paura del pane
È una questione di numeri, inizia così; un giorno ti alzi e scrivi su un foglio: centotrenta. La tua vita cambia, inevitabilmente, per sempre. Un mese, due mesi, tre mesi e inizi a perdere i capelli, ad avere tremende fitte ovunque, a sentire le ossa che cercano di bucarti la pelle e ne gioisci! Sei inebriata dal potere che hai scoperto di avere, una forza che nessun altro ha: tu non mangi, il resto del genere umano cede alla tentazione sporchissima del cibo, tu no, e sei pulita. La fame diventa una dipendenza e tu sei un’anoressica e le anoressiche sono proprio delle stronze. Nel reparto dove si piange davanti a un pezzo di pane ti ci trovi, catapultata, per sbaglio, solo perché un giorno hai rivelato di essere a stomaco vuoto da qualche tempo, centodiciassette ore, e qualcuno ha pensato non fosse normale. Ma per te lo era, e anche adesso che cerchi di sbriciolare polpette di polistirolo non capisci cosa ci sia che non va. Ogni tanto ti capita di vederle, le tue rivali, si fotografano riflesse nella porta d’ingresso, qualcuna passa insistentemente le proprie dita sulle clavicole poi avvolge l’avambraccio tra il pollice e l’indice, e tu sai cosa sta facendo: ispeziona ogni centimetro del proprio corpo in cerca di un segno, è rassicurante sentire ancora la durezza, gli spigoli. Tra anoressiche non ci si parla, è una legge non scritta, una consuetudine: gli avversari si guardano da lontano, si studiano. È una gara e tu vuoi esserne la campionessa, la vincita è l’assenza, la sparizione delle forme. Alla morte non ci pensa mai nessuna. Le anoressiche si distinguono: da chi mangia e basta, da chi mangia e si infila le dita in gola, da chi ha paura di soffocare bevendo dell’acqua. Le riconosci, le vedi puntare alla perfezione, accomunate da un unico difetto: la fame.
La luna di miele con l’anoressia, il benessere che si prova nel vedersi rimpicciolire, regredire, giorno dopo giorno. Il bianco, l’assenza, il vuoto. Un corpo vergine da difendere pianificando ogni giornata, annullando qualsiasi istinto vitale. Non riconoscere più i segnali di un corpo che soffre, che trema, freddo e assente. Nutrire e nutrirsi come l’atto d’amore più grande, privarsene per cercarlo nell’altro, darlo aspettando di esserne imboccati ma ritrovarsi affamati. Nel frattempo: il gelo della fame.
Cos’è che cerchi poi?
Le gambe che non si toccano, dio, mi fanno impazzire le gambe che non si toccano. Il viso pallido simil cadaverico che dà fastidio alla vita.
È logico? Assolutamente no. Riesco a liberarmi dal pensiero ossessivo della magrezza? Assolutamente no.
Non è il peso, è il pensiero costante, è portare la bilancia nello zaino del campeggio, è guardare il cibo diventare un numero, sentirlo diventare grasso e giallo sotto pelle, è svegliarsi la notte affamati, è vivere d’acqua, è avere paura dell’acqua, è la paura, è la tachicardia a un buffet.
Mangiare è esistere, rifiutare il cibo è affermarsi: sono qui, guardami.
La risalita è lenta, lentissima e la credi addirittura peggiore del baratro dove ti sei adagiata e di cui ormai conosci i confini, in cui sai come muoverti. Esisti ancora? Cosa sei se non la fame? Cosa provi se non la fame? A cosa pensi se non alla fame? Lo stomaco pieno è sporco è pesante è vivo è estremamente vivo.
Dipende da te, scegli di esistere?
Non ho mai creduto che il problema fosse realmente il pane, le calorie, le ossa. Sarebbe ingenuo, a tratti stupido, credere che ci si possa lasciar morire di fame per essere belle, la bellezza non conta mai niente, la fame porta a essere piccoli, richiede attenzioni, cure e affetto. È una fame di carezze, di baci, di amore. È il desiderio di riconoscersi umani, stupidi e affamati.