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illustrazione Callados - Stefania Savoia - SPLIT - Pidgin Edizioni

Callados

Credo di avere fumato tutte le sigarette che al mio corpo era concesso sopportare.

Ho fumato ogni marca, ho fumato medium, light, super light, extra light e con pretese cancerogene delle più differenti. Con e senza filtro, ovviamente. 

Ho fumato sigarette di tabacco arrotolato. C’è stato un momento in cui ne rollavo almeno quaranta al giorno. Ero molto brava, tutte uguali, tutte precise. Per decine di anni, la pelle tra le dita del medio e indice è stata gialla e il colore non andava via. Se lo leccavi, era amaro.

Ho fumato le sigarette di mia nonna, lasciate all’ingresso quando tornavo di notte tardi, anche se erano leggere e sabbiose. 

Ho fumato sigarette scroccate per strada in ogni angolo d’Europa, quelle alla fragola, quelle alla ciliegia. Con il bocchino. 

Ho svapato. Ho fumato i bidi e quelle sigarette con un pulsantino che ti permetteva di aggiungere un artefatto aroma alla menta. 

Ho fumato un sigaro e ho vomitato. Ho comprato la pipa e l’ho fumata. 

Che cretina, a quindici anni, con la pipa.

Ho fumato le sigarette fini fini, bianche bianche,  perché non avevo altra scelta.

Ho rubato sigarette ai miei amici e a Silvana, senza mai sentirmi in colpa. C’è stato un momento nel quale raccoglievo, dai portacenere di casa, il tabacco non bruciato e ci rollavo sigarette amare con cartine di ogni colore, spessore e aroma. Erano tutte mie le sigarette del mondo, le volevo fumare tutte. 

Poi improvvisamente ho smesso. Come smetto con le cose, come abbandono, come faccio le cose io.

In quei giorni, nel pieno dei vent’anni, fumavo ancora ma le sue sigarette non le avevo mai viste, mai sentite nominare. Mi dice che si chiamano Callados, che in Italia non le vendono, che sono simili alle Gitanes. 

Ah, sì. Le Gitanes, nel pacchetto azzurro, con una gitana fatta di fumo. Un livello di tabagismo troppo ricercato, non come il mio, al limite della bulimia.

Le Callados erano diverse da tutte le altre sigarette che avevo fumato. Il pacchetto era morbido e di fattura dozzinale. Nessun abbellimento, nessuna confezione raffinata. Scritta bianca su sfondo rosso intenso e un nastro dorato con una specie di medaglia poco definita. La carta che avvolgeva il tabacco, che era nero e tagliato in strisce piuttosto grossolane, era spessa.

Me ne offre una, quindi, e l’accendo. Il fumo è spesso. Alla prima boccata tossisco come se avessi mangiato la terra. Divento tutta rossa. Come una novellina. Come la prima Marlboro rossa, prima di salire sulle montagne russe della Fiera. Uno sballo insuperabile, per me che non sono mai andata così oltre.

Aspiro con convinzione. Catrame acido, penso, che schifo. Non mi è mai capitato, avevo sempre fumato tutto, con gusto, con estremo piacere.

In quei tempi, a La Coruña, i bar erano delle gabbie di nebbia che si attraversavano alla cieca fino al bancone, per guadagnare la cerveza che ti aspettava. Cento pesetas per un litro di birra, nemmeno nell’Isola era così economica. È esattamente al bancone, a la barra, di quel bar che cominciamo a parlare.

Serviva roba semplice, nessun cocktail perché nessuno lo chiedeva. Il Gin tonic era il massimo dello chic. Lui era così snello e armonico da sembrare un ballerino. Ondeggiando con eleganza a ogni movimento. Innegabilmente bello. La Callados in bocca e una parola per ogni cliente. Sembrava li conoscesse tutti.

«Lo vedi quello alto con la faccia da cavallo? Quello è ricco. Ricco da fare schifo. Eppure gira con le pezze al culo. Viene un paio di volte a settimana per incontrare la madre che vive da queste parti. Sembra che la moglie non la sopporti e si incontrano di nascosto per potersi parlare. Ridono e bevono. Quella che sta seduta in fondo invece è una pittrice, Mariana. Ha esposto anche in musei importanti. Lei dice anche al Louvre. Se si mette a parlare ti racconta tutta la sua vita. Dice che ha lasciato la fama per fare la pittrice per le strade della città.»

Intorno a mezzanotte, un ragazzo sulla trentina, si fa strada tra il fumo e la folla, sale sul piccolo palco del bar e comincia a suonare la chitarra. Cantano tutti. 

Lui versa vino, ginebra e vermú e canta a bassa voce da dietro al bancone. 

Io seguo le sue labbra per cogliere parole e la mia bocca si muove, come quando si imbocca un bambino. Si gira e mi vede e sorride.

Altra sigaretta, ancora. Speravo di abituarmi, speravo che il sapore avvolgesse la bocca, saturandola come in un’anestesia. Non riesco a provare piacere ma fumo lo stesso. 

A un certo punto la musica cambia e il ragazzo comincia a cantare una canzone di Leonard Cohen.

Ah, the last time we saw you you looked so much older. Your famous blue raincoat was torn at the shoulder. You’d been to the station to meet every train, and you came home without Lili Marlene.”

Una di quelle poesie come solo Cohen.

Ed è lui, ora, che segue le mie labbra.

Finisce la musica e sono le quattro e io l’ho aspettato. Mi bacia con la sigaretta ancora in bocca. Lo schifo e il piacere si mescolano ed è qualcosa che non capisco ma mi piace. 

Mi fermo e prendo il tabacco e ne faccio una delle mie e fumo mentre lo guardo pulire, mettere via i bicchieri e ordinare la barra. Torna da me e mi bacia e tutto il resto e lo lascio fare e la notte è bella anche con quell’odore, con quell’aroma che per la prima volta trovo piacevole, che lo avvolge e che avvolge anche me. Lui odora di quel tabacco, dappertutto e ora mi piace, tanto.

È mattina. Mi sveglio con un forte senso di nausea. Il giorno cambia tutto, maledizione, e ora quell’odore di catrame non riesco proprio a sopportarlo. È di nuovo come la prima volta, è di nuovo il catrame acido, odioso. 

Non resisto, anche se lui è ancora bello, credo. 

Sembra tutto diverso, anche la sua bocca è diversa. 

Guardo dalla finestra la piccola città che muove i primi passi incerti, come se avesse bevuto tanto anche lei. I primi caffè sono quasi vuoti e ci si saluta con gli occhi perché le parole sono rimaste a dormire. Sposto lo sguardo su di lui, nascosto appena dal lenzuolo, senza rimpianto. Apre gli occhi. Gli dico che vado e sorride. Non si alza, mi tira un pacchetto di Callados proprio prima che chiuda la porta. Lo prendo al volo. Esco e respiro finalmente e mi unisco alla città che si risveglia. Ho ancora il pacchetto in mano, lo metto in borsa. Dopo tanti anni, potrebbe essere ancora lì, in una delle mie tante borse, insieme agli accendini che ho rubato agli amici, ai porta tabacco, a qualche cartina.



Nella vita ho fumato così tante sigarette da sentirmi male, da non riuscire a respirare. A volte mi sono svegliata con un peso sul petto e ho pensato che sarei morta ma che prima dovevo fumarmene un’altra. Ho fumato nei corridoi della mia scuola. Ho fumato di nascosto nelle scale antincendio di un ospedale. Ho fumato in treno e al cinema perché ancora si poteva. Ho fumato con il raffreddore, con la tosse, con la febbre, con la varicella. Ho fumato così tanto da non distinguere il sapore delle cose. Ho fumato sempre tra primo e secondo e mai dimenticato di farlo dopo il caffè. Ho fumato prima di prendere una decisione e ogni volta che avevo paura.  

 Un giorno ho smesso, come faccio le cose io, come abbandono, senza una ragione. 






Stefania Savoia è nata a Palermo nel 1980. Ama molte cose tra cui parlare di politica, insegnare, la letteratura femminile, le Langhe, il mare e mangiare le arancine. È laureata in lingue e letterature straniere e specializzata in letteratura ispanoamericana. Da alcuni anni vive a Torino dove insegna lingua e cultura spagnola. Ha un blog personale senonsaraserenosirasserenera e al momento scrive anche per la rivista mezzocielo. Un suo racconto è stato pubblicato sulla rivista Crack.

illustrazione Callados - Stefania Savoia - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Callados”, un racconto di Stefania Savoia per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni