Pensieri inopportuni ricorrenti
(Racconto tratto da New York Tyrant, magazine di Tyrant Books. Traduzione dall’inglese di Eva Angelini.)
A volte, quando provo a immaginarmi, vedo il mio corpo sulla spiaggia. Solo che non c’è acqua. Quindi immagino si tratti di un deserto, in realtà. Immagino il mio corpo nel deserto, distesa sulla sabbia e il sole è molto brillante. Ed è cocente. Così tanto che la mia pelle inizia ad ammorbidirsi, diventa sempre più tenera e poi comincia a sciogliersi. Il mio naso è il primo a cadere e poi le mie cosce cedono, e il mio seno cola giù in rivoli, lungo il mio torace, gocciolando dalle ascelle. I miei organi diventano poltiglia e macchiano la sabbia bagnata, e tutto ciò che resta sono le mie ossa. Sono scheletrica.
A volte, quando sto avendo una conversazione con qualcuno e mi sta annoiando o non mi piace la piega che sta prendendo, immagino di afferrare per i capelli questa persona e sbatterle la testa contro un muro. Non fa differenza il luogo dove si sta svolgendo la conversazione; nella mia mente, il muro è sempre fatto di stucco. È color crema, del tipo molto comune nella zona sud-occidentale. Il suo naso si schianta per primo, e si riesce a vederne l’osso, le cavità nasali, e poi i suoi denti si spaccano come legname. Lo scalpo viene via e reggo i suoi capelli insanguinati fra le mie dita, chiedendomi cosa sia andato storto.
A volte, quando guardo un bel bambino o un animale, penso a un treno che lo investe e a quale rumore produrrebbe.
A volte, quando provo a dormire, immagino un gigante che strappa via il tetto della mia casa come una scatola di sardine e mi rapisce nella notte. Mi porta nella sua casa e mi distende su una teglia e sono troppo spaventata per scappare. Mi inserisce nel forno e fa veramente caldo lì e mi fa venire sonno. Sono lasciata lì dentro per molto tempo. Mi sembrano decenni. Alla fine sono tutta essiccata e croccante, così il gigante mi tira fuori e mi riduce a una polvere sottile, mi dispone in strisce e mi sniffa.
A volte, quando sto prendendo dei cracker o dei cereali dallo scaffale, mi assale la paura che, aprendola, la scatola possa essere piena di vermi, di mosche ronzanti. A volte, avvicino la scatola al mio orecchio e la scuoto per assicurarmi di non sentire nulla che si agiti al suo interno.
A volte, quando mi trovo su un aeroplano, immagino di morire perché qualcuno ha messo dell’arsenico nel mio caffè o qualcosa del genere. Smetto di respirare e la mia pelle diventa bluastra. I miei occhi sporgono. Sono accasciata contro il finestrino e c’è del sangue che sgorga dal mio naso. Macchia il sedile.
A volte, quando degli amici mi chiamano al telefono e vogliono del supporto emotivo, tutto quello che riesco a pensare sono io che li spingo in una carriola. Sto correndo. Ci sono un mucchio di rocce per la strada e io devo sforzarmi parecchio per tenere la carriola dritta e non inciampare. Dovrei portarli all’ospedale perché gli si stanno aprendo delle piaghe su tutto il corpo, ma non faccio che pensare che ormai deve essere troppo tardi. Cioè, le piaghe sono già sature di pus. Tantissimo pus. Continua a schizzarmi negli occhi.
A volte, quando sono davvero arrabbiata, ho la sensazione che le cellule nel mio cervello scoppiettino e io mi stia riscaldando dall’interno. Questo mi fa smettere di essere infuriata per un breve secondo. Mi preoccupo che questo sia ciò che si sente quando si sta per avere una combustione spontanea. Avete mai visto quelle fotografie? Di solito c’è una sedia carbonizzata, con accanto un moncone annerito. Avrei quell’aspetto.
A volte, quando entro nella doccia, chiudo gli occhi e mi sembra di non essere più nella doccia. Sono in un vicolo e c’è un gruppo di barboni che mi piscia sui capelli.
A volte, quando penso a come sarebbe restare incinta, immagino che, invece di un bambino, dentro di me stia crescendo un verme molto grosso con i denti che mi sta masticando l’utero. Al nono mese, vado a partorire e tutto quello che viene fuori è il verme con i suoi denti e un sacco di sangue. I dottori, però, vogliono comunque che faccia poppare il verme infante. Lo prendono fra le braccia, gli mettono un pannolino e me lo tendono perché lo regga e io cerco di dire “No no no”, ma sono troppo debole per il parto e tutto quello che riesco a fare è lagnarmi debolmente. Mi piegano le braccia, così che sono obbligata a reggerlo, e lo attaccano al mio seno che lui immediatamente stacca via con un morso e finalmente è vicinissimo a ciò che ha cercato per tutto il tempo, ovvero il mio cuore.
Ma la cosa strana è che, ogni volta che penso a te, non appare niente del genere. Quando penso a te, sono piccola e indifesa fra le tue braccia e mi stai carezzando i capelli. Sono piccola e indifesa ma mi sento molto al sicuro; con te mi piace sentirmi piccola e indifesa. C’è una luna grande, grandissima, e le stelle stanno punteggiando nel cielo mappe di leoni sorridenti e tu stai cantando. La melodia ci porta a risalire e a galleggiare, sempre più in alto, e le stelle ci inghiottono in un modo che ci permetterà di restare sempre insieme, di non sanguinare o marcire mai, o di provare rabbia, o sofferenza, o dolore.
Juliet Escoria è l’autrice del romanzo “La squilibrata”, pubblicato da Pidgin Edizioni nell’ottobre 2020. Per maggiori informazioni, visita questa pagina: https://www.pidgin.it/prodotto/la-squilibrata/
Leggi questo racconto in lingua originale qui: http://magazine.nytyrant.com/recurring-intrusive-thoughts/