L’ora senza ombre

Per i greci, l’ora più temibile era il mezzogiorno: l’ora del sole allo zenit che spacca in due il tempo e libera i demoni dalla loro prigione d’ombra. Il momento più pericoloso per l’anima, che è esposta a rischi di ogni sorta. L’ora senza ombre è la prima antologia a cura di In allarmata radura. Realizzata in collaborazione con Pidgin Edizioni, mette insieme sedici scrittori e sedici fotografi attorno a un unico tema, quello della narrazione del sé, nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, possano invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo. Narrazioni in grado di trasformarsi in vortici che, a partire dall’ombelico dell’io, esplodano poi verso l’esterno. Il titolo dell’antologia allude al paradosso del mezzogiorno, nell’idea che nel bianco accecante si annidi il suo opposto, e che solo restando nella contraddizione, sostenendo la frustrazione che comporta, sia possibile una qualche forma di consapevolezza, anche se precaria e in continuo movimento.

Il volume include inoltre 16 fotografie in bianco e nero.

I saggi narrativi sono a opera di: Veronica Galletta (finalista Premio Strega), Ester Armanino (vincitrice Premio Kihlgren Opera Prima, Premio Viadana Giovani, Premio Zocca e Premio per la Cultura Mediterranea), Francesca Mattei (finalista Premio Pop e Premio John Fante), Simone Sauza, Francesco SpiedoAlessandro Busi, Fabiana Castellino, Deborah D’Addetta, Livia Del Gaudio, Aurora Dell’Oro, Leonardo Ducros, Antonio Esposito, Gabriele Esposito, Mario Emanuele Fevola, Maria Teresa Rovitto, Alexandrina Scoferta.

Prefazione di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino; postfazione di Maria Teresa Rovitto e Livia Del Gaudio. Curatela fotografica e foto di copertina di Tito Ghiglione.

L’opera è pubblicata con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”.

 

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Descrizione

Il volume include inoltre 16 fotografie in bianco e nero che accompagnano i testi nel tracciare una progressione dalla luce all’oscurità e poi di nuovo verso la luce: i fili che connettono le diverse scritture non si possono dire linee rette, bensì richiamano quel movimento di discesa e risalita che consente l’esplorazione del sé, da un inizio segnato dalla luce per poi scendere nelle profondità, stanziando nell’oscurità, finché non si è pronti a risalire mostrando una nuova consapevolezza o prospettiva.

Le fotografe e i fotografi che hanno contribuito al volume con le proprie opere sono: Nicola Villa, Pierclaudio Duranti, Claudia Jares, Mickaël André, Rowan Romeiro, Elide Blind, Federico Renzaglia, Tito Ghiglione, Oswald Wittower, Sotiris Lamprou, Barbara Cannizzaro, Simona Nobili, Francesco Dongiovanni, Nadzeya Pakhotsina, Lulù Withheld, Camilla Schmitt.

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Informazioni aggiuntive

Scritto da

A cura di

Formato

Cartaceo, copertina morbida, 15 x 21 cm, Inserti fotografici

Pagine

264

Anno di pubblicazione

2024

Estratto

(Estratto dalla prefazione di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino, dal titolo “Il bianco e il nero. Le narrazioni del sé attraverso il conflitto”)

L’ora senza ombre. L’antologia e i suoi temi

Per i greci, l’ora più temibile era il mezzogiorno: l’ora del sole allo zenit che spacca in due il tempo e libera i demoni dalla loro prigione d’ombra. A riprendere l’antica credenza, e a contrapporla al mito della mezzanotte di origine cristiana, è Roger Caillois che scrive, ne I demoni meridiani: “La presenza del sole allo zenit, che divide il giorno in parti uguali sulle quali regnano i segni contrapposti della crescita e del declino, le conferisce un significato di passaggio assai spiccato. Per di più, essendo l’ora della massima diminuzione dell’ombra, rappresenta il momento più pericoloso per l’anima, che è esposta a rischi di ogni sorta”. L’esperienza che si ha della luce in un assolato pomeriggio di agosto può fornire da sostegno alla tesi. Il passaggio dall’abbagliamento al buio è immediato. Delle forme resta solo il contrasto; il controluce, la sagoma: quel bianco e quel nero da cui siamo partiti. Per questo il titolo dell’antologia allude al paradosso del mezzogiorno, nell’idea che nel bianco accecante si annidi il suo opposto, e che solo restando nella contraddizione, sostenendo la frustrazione che comporta, sia possibile una qualche forma di consapevolezza, anche se precaria e in continuo movimento. In questo senso, L’ora senza ombre è da leggersi come unità; un flusso continuo che attraversa un gradiente di grigi, dal più chiaro al più scuro e viceversa, nel rispetto della differenza di sguardo di fotografi e scrittori.

L’ora senza ombre, il mezzogiorno che divide la luce più intensa dall’oscurità più profonda, non racchiude soltanto i testi nel suo insieme, ma trova riscontro nelle scelte grafiche dell’antologia. Ogni testo, infatti, lascia fra un paragrafo e l’altro uno spazio bianco, contraddistinto da nessun segno. Questo spazio bianco è senza ombre, rompe il testo nelle sue fasi, permette il cambio di argomentazione o registro, consente un passaggio. La presenza dello spazio bianco esalta la moltitudine di immagini e di io all’interno dell’antologia in generale e nei singoli testi in particolare; come il mezzogiorno è l’ora del riposo, così lo spazio bianco è una sospensione che prepara al salto: un nuovo messaggio, un nuovo io. 

Nella diversità di sguardi, ecco che i testi possono essere riconosciuti come unità. È infatti in seno a quest’ultima che possono essere letti e intesi i sedici brani dell’antologia. Connessi fra loro secondo fili più o meno visibili, più o meno impliciti, fino a costruire un’unica inestricabile trama. 

I fili che connettono le diverse scritture non si possono dire linee rette, bensì richiamano quel movimento di discesa e risalita che consente l’esplorazione del sé. Ogni connessione, ogni richiamo segue lo stesso movimento, da un inizio segnato dalla luce – una prima chiarezza – si scende nelle profondità, stanziando nell’oscurità, finché non si è pronti a risalire mostrando una nuova consapevolezza o prospettiva. 

In questo senso va inteso l’ordine in cui sono stati disposti i sedici testi, laddove sono state riconosciute scritture bianche e scritture nere. Le scritture bianche hanno permesso il movimento di discesa prima, e di risalita poi; le scritture nere, invece, posizionate esattamente al centro consentono di soffermarsi, addentrarsi, per esplorare e guardare dentro l’io. 

Vi sono alcuni legami, che possono considerarsi maggiori per la frequenza con cui compaiono all’interno dell’antologia. Essi, in primis, riguardano la scrittura e l’arte, come se, nel momento in cui l’io si rivolge a se stesso per capire se stesso, non possa fare a meno di soffermarsi sul mezzo di espressione scelto. E dunque si riscontra principalmente una riflessione sulla scrittura in quanto tale, come forma d’arte più intima e immediata. Così la scrittura è prima limpida, con il testo di Ester Armanino, in cui l’autrice riflette, nel suo essere disordinata o fluida, il rapporto di perdita o riappropriazione con la propria essenza; poetica nel testo di Alexandrina Scoferta, laddove nella forma forse più sottile e difficile della scrittura – la poesia – la lingua diviene senso di appartenenza. Ed è a partire da qui che inizia la discesa, in una gradazione di grigi: dal testo di Veronica Galletta, in cui la scrittura recupera il suo senso originario, cioè tracciare dei segni che divengono strumento di ordine nel caos; da Francesca Mattei, in cui il linguaggio assume importanza grafica, cioè la distinzione del segno, di parole piccole per esprimere il piccolo, e maiuscole per esprimere gravità, diviene mezzo per trascendere se stessi e raggiungere quante più persone possibili. Si sprofonda nel nero con il testo di Gabriele Esposito, in cui la parola scritta non è più mezzo, ma fine in se stessa, bramosia per un inedito in cui si racconta una storia di desiderio. Con il testo di Antonio Esposito, invece, il desiderio diviene amore, laddove i libri, ma anche i libri narrati nei libri, sono luoghi di scoperta, accompagnati da una scrittura sperimentale, a sottolinearne le infinite possibilità. Infine, il movimento di risalita si ha con il testo di Leonardo Ducros, in cui la scrittura si fa sincero strumento, linguaggio che determina e che nella sua immediatezza svela la propria natura. 

La scrittura non è intesa soltanto in se stessa, ma anche in relazione ad altre forme d’arte, rivelando ancora un movimento di discesa e risalita. Con il testo di Deborah D’Addetta l’esplorazione dell’io passa attraverso la fotografia, accompagnata da riflessioni letterarie; sprofonda nel testo di Livia Del Gaudio, in cui la pittura diviene criterio per tracciare i contorni della luce e dell’ombra, e la scrittura è feroce nel ricomporre immagini e ricordi ritrovati. Si riemerge con la dedica al cinema di Maria Teresa Rovitto, in cui la storia della propria famiglia è narrata come fiaba e ripresa; e infine il proprio passato trova collocazione tramite la visione di una statua che rappresenta la metamorfosi per eccellenza con il testo di Aurora Dell’Oro. 

Se volessimo riconoscere un ultimo legame che intercorre fra gli autori e le autrici, non si può non nominare l’argomento che più di tutti è avvolto dal silenzio: la morte. 

La morte trova in questa antologia spazio di riflessione come espediente per trascenderla. La morte si sperimenta così nel sonno e nel sogno, come suggerisce Mario Emanuele Fevola; diviene concreta nell’immagine dell’autopsia, nel testo di Fabiana Castellino, come varco fra il non più e il non ancora. Nel testo di Simone Sauza la morte si fa spazio inquieto, città tetra e nervosa, finché non si ricomincia a risalire. Per Alessandro Busi la morte diviene processo, non solo di scrittura, ma di elaborazione del sé. La risalita si conclude con Francesco Spiedo, in cui la morte della salamandra diviene simbolo non solo del collasso della natura, ma anche ironia, motivo di derisione. 

La scrittura, l’arte e la morte sono così i fili principali della trama di questa antologia; sono, in altre parole, i temi più urgenti, quelli che le autrici e gli autori hanno sentito l’esigenza di esprimere. Fili connessi fra loro da percorsi minori, più sottili, che compongono la complessità della trama. 

Ricorrono espedienti e immagini come quella del sogno, dello specchio, o ancora del delicato rapporto con i padri, le madri, i fratelli. Si riscontrano ossa e vertebre nelle scritture più nere, luoghi precisi e delimitati nelle scritture bianche. In alcuni testi, il nero e il bianco ritornano esplicitamente in una scacchiera, nella lucentezza della natura, o nel manto scuro degli animali, nello sfondo dei dipinti. 

Perché il bianco e il nero non sono mai privi di profondità, ma si alternano con tutte le loro possibili sfumature. Lo stesso movimento di discesa e risalita non è unico, bensì composto da un numero indefinito di discese e risalite, a ricordare le maree, i movimenti tellurici e il magma sotto la crosta. Questa è, dopo tutto, l’esplorazione dell’io: movimenti invisibili sotto la pelle. 

Da questa trama complessa fin qui descritta, emerge un paradosso: per esplorare e comunicare se stessi si ha bisogno di uscire da sé. Per questo tutti i racconti si rivolgono a un tu, che sia un fratello, un amico scomparso; che sia uno sdoppiamento che consenta di guardarsi dall’alto. L’altro non è solo fuori da sé, ma si cerca dentro di sé, per spiegarsi e vedersi. Nello sfondo nero che è la propria interiorità si cerca quell’unico punto bianco che può illuminare tutto.