Sono fame – Natalia Guerrieri
Nella capitale tentacolare, insaziabile catalizzatrice delle logiche della prevaricazione, le rondini schizzano da una zona all’altra per portare ogni genere di cibo ai clienti che aspettano affamati dietro porte socchiuse. Chiara è una di loro: le sue giornate sono scandite da una chat sempre attiva attraverso cui ogni suo gesto viene monitorato, le sue ali sono braccia smagrite che la portano in appartamenti asfittici, loculi semibui, esponendola a situazioni paradossali e a tratti surreali. In attesa di un impiego migliore, fra rapporti incompiuti, simbiosi malsane ed echi del suo passato, si piega a uno sfruttamento continuo della sua psiche e del suo corpo, finché alcune rondini non iniziano a scomparire, divorate dalla famelica città. Attraverso una scrittura tagliente e immagini grottesche, Sono fame fa a pezzi la realtà che conosciamo per ripresentarla con un aspetto inconsueto e straniante.
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Descrizione
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DICONO DI “SONO FAME”:
“Un romanzo manifesto di una generazione.” – Stefano Bonazzi, Satisfiction
“La narrativa doveva ancora trovare la voce adatta a commentare il mondo del lavoro di oggi. Oggi l’abbiamo trovata. È la voce di Natalia Guerrieri.” – Marta Olivi, CriticaLetteraria
“Un capolavoro, un romanzo dalle pagine affilate.” – Simona Lazzaro, La Settimana TV
“Le pagine di Sono fame corrono veloci come la loro protagonista, ma depositano nel lettore un segno duraturo d’inquietudine.” – Giulia Masperi, PULP Libri
Informazioni aggiuntive
Dimensioni | 19,5 × 12,5 cm |
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Scritto da | |
Collana | |
Pagine | 260 |
Formato | Cartaceo, copertina morbida, 12,5 x 19,5 cm |
Anno di pubblicazione | 2022 |
Incipit
(Incipit del romanzo “Sono fame” di Natalia Guerrieri)
1.
La capitale è un corpo. Fatto di corpi. Un dito, staccato dalla mano, si piega, cade nel vuoto e va a conficcarsi nel terreno. L’unghia affonda nel suolo, l’estremità recisa rimane umida e aperta verso il cielo. Ossa, legamenti, tendini, vasi sanguigni e nervi sono compressi tutti insieme dal rivestimento di cute. Dal dito scaturisce una torretta, terza, seconda e prima falange segnano altrettanti piani, e sulla cima svetta un nastro di sangue. Un braccio vortica nell’aria con la velocità sghemba di una manovella per poi piombare sul gomito e contorcersi al suolo. Si pietrifica in un monumento grigio e spoglio, aguzzo. Un gigantesco sterno fa un rumore secco toccando il suolo, seguono pezzi di gambe, un piede, spalle che vanno a seminarsi qua e là, facendosi colli.
Attorno cadono boccoli biondi, neri e rossastri che si sviluppano in radici, tronchi e rami. Occhi acquosi, con iridi chiare, diventano pozze e ristagni. Un getto di bile scivola sulla terra e scava il letto di un fiume. Miriadi di cellule epiteliali iniziano a cadere come fiocchi di neve, sottili, trasparenti, insignificanti, e quando toccano terra si animano. La formazione della capitale continua tra terremoti, inondazioni e stratificazioni progressive che annegano, schiacciano, annientano e colmano ogni spazio con altri pezzi, ancora pezzi. C’è sempre bisogno di carne nuova.
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Poggio i piedi su qualcosa di irregolare e caldo che lancia un grido. È Ivana. Si dibatte sul pavimento, avvolta in un saccolenzuolo.
Le dico, «Scusa.»
Si rigira con astio sul materassino fino a trovare una nuova posizione. Faccio attenzione a non pestarla più. Lo sgabuzzino è microscopico. Scavalco la sua piccola testa appuntita, i capelli arruffati. Apro l’armadio quel che basta per afferrare un paio di shorts e una canottiera nera. Mi schiaccio contro l’angolo dove ci sono il comodino e la abat-jour e li infilo. Cerco le scarpe a tentoni sotto al letto. Dentro, appallottolati, trovo i calzini di ieri.
Busso alla porta del bagno più vicino alla mia camera, da dentro si sente lo scroscio della doccia. Accendo lo smartphone: 11.07, è tardi.
Dalla porta del secondo bagno esce Emi, con un asciugamano giallo attorno al corpo e i capelli neri che le ricadono bagnati sulle spalle.
Ne approfitto per chiudermi dentro a chiave. Ho mal di stomaco. Raggi di ferro mi attraversano il corpo a partire dal ventre. La mia faccia sullo specchio è pallida, ho due occhiaie violacee e tracce di trucco nero sbavato attorno agli occhi. Mi tampono la pelle con due batuffoli di cotone impregnati di struccante. Lucy li chiama neve. Mi lavo con l’acqua tiepida, cerco un asciugamano a tentoni ma qui dentro è tutto un casino. Ne prendo uno con i bordi azzurri, sarà di Alessio, me lo passo sotto al mento, dietro alla nuca, è fastidioso perché è ruvido e perché non è mio.
Esco dal bagno, dal fondo del corridoio proviene odore di caffè. In cucina trovo Hassan che canticchia con le cuffie in testa. Indico la moka ancora sul fornello, «Posso?»
Lui fa sì, mi riempio una tazzina e la bevo veloce. Raccolgo lo zaino termico giallo di Envoyé e me lo metto sulle spalle. Controllo l’app ed esco.
La tromba delle scale sa di muffa e di fritto ma oggi c’è anche un odore diverso, come se qualcosa stesse marcendo. L’ascensore come sempre è occupato. Scendo tre piani, arrivo nell’androne e mi accorgo di aver trattenuto il respiro per le ultime due rampe. Mi avvio verso l’uscita, fingo di non vedere il portiere e la signora del primo piano che chiacchierano sulla porta della guardiola.
Lui dice, «Un uccello. Incastrato nell’intercapedine.»
Vedo le caviglie della donna nelle pantofole di feltro, il pavimento polveroso, la maniglia d’ottone della porta d’ingresso e poi sono fuori dall’edificio.
La luce mi ferisce gli occhi. Raggiungo la bicicletta parcheggiata nel cortile, fra i vasi vuoti e le radici secche. Sul sedile come ogni mattina c’è un sottile strato di polvere.
Nella diciottesima zona il marciapiede è sgretolato, pieno di merde e spazzatura. Salgo in sella, piego il busto in avanti, tendo le braccia con lo zaino termico sulla schiena ed eccomi, sono una rondine. Spostarsi con il motorino sarebbe più veloce e meno faticoso ma la benzina costa. La bicicletta è l’aria sotto le nostre ali, ci hanno detto, la bicicletta sfreccia, i nostri corpi hanno le ossa cave come quelle degli uccelli. I primi tempi mi facevano male le cosce, la schiena, le spalle e le braccia ma dopo qualche mese mi ci sono abituata. Piazzo lo smartphone sul supporto sopra il manubrio.
Le strade della capitale sono una serie di salite e discese, ingombre di automobili, autobus, tram, motorini, pedoni, carrozze trainate da pony cariche di turisti che impugnano cellulari come scettri. Mi infilo tra un furgone e un autobus, poi tra un motorino e una fila di cassonetti.
Parcheggio davanti a Freddy Pizza, con l’insegna gialla e rossa bucherellata dalla grandine. Controllo sull’app, ci ho messo meno di dieci minuti.
Quando entro il titolare dice, «Sei in ritardo.»
Sta chino sulla cassa, un cetaceo ricoperto di sudore. Le sue dita rosse sono würstel crudi e contano i soldi, infilandosi nei cassettini.
«Chiara?»
Da Freddy Pizza lavora anche Toni. È lui che mi ha chiamata. Si rigira la pasta per la pizza tra le mani, tiene i suoi occhi neri fissi su di me, il mento fresco di rasatura. Di fianco a lui Debora, l’altra pizzaiola, taglia a pezzi una mozzarella. C’è odore di fumo, di lievito e passata di pomodoro. Quando Toni si allontana per controllare il forno, Debora mi si avvicina e sussurra, «Suo fratello ha perso il lavoro.»
Io annuisco senza sapere cosa rispondere. Resto a guardare i loro movimenti, fino a quando Toni sforna le pizze.
«Pronte! Una carciofini e una salame piccante.»
Le fa scivolare nei cartoni. Si pulisce le mani sul grembiule e si avvicina, appoggia gli avambracci sul bancone davanti a me. Li guardo, sono sodi, con i peli incrostati di farina. Debora impila i cartoni e me li porge con impazienza.
«Toni?» il proprietario ci guarda di sbieco.
Lui mi fa un cenno e si allontana a passi lenti. Io mi chino e metto il cibo nello zaino. Me lo carico sulla schiena, ora è caldo e pesante. Esco e slego la bicicletta. Nel frattempo mi arriva un messaggio di Mario.
ci vogliono diciassette min riesci a farcela in quindici?
La gente nella capitale suona il clacson senza un preciso motivo, ognuno con la sua tonalità, con una durata e un ritmo intesi a comunicare fastidio, sdegno o rabbia. Una rabbia che frigge, pronta a esplodere in qualsiasi momento.
Come cazzo guidi, dove cazzo vai. Una sorta di urlo generale dello stare al mondo, eccomi, ci sono anche io.
Posso sgolarmi o fare gesti, gettarli come sfogo nella nuvola dei gas di scarico. Alcuni serbatoi sembrano riempiti con grasso animale dalla puzza e dal fumo che buttano fuori.
Sterzo e finisco su un marciapiede, faccio il pelo a qualcosa che mi sembra una scimmia, mi volto a guardare ma è già troppo distante ed è il momento di girare a destra, prima che un uomo mi attraversi la strada con dieci cassette in bilico fra le braccia.
Arrivata, lego la bici a un palo e suono il campanello. Dal citofono dicono «Sali al quinto» e si sente abbaiare. Prendo l’ascensore che puzza di cavolo e deodorante.