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illustrazione Bivi - Stefania Covella - SPLIT - Pidgin Edizioni

Bivi

La prima volta che ho predetto il futuro avevo dodici anni, dissi a mia nonna che le si sarebbe fermato il cuore sulla scalinata di Sant’Agata, una mattina di aprile del 1998. Quando ne ho compiuti sedici mi ha organizzato una grande festa, c’erano quasi solo signore anziane e vicini di casa ma ho avuto una torta alla panna a due strati con il mio nome scritto sopra, ho avuto palloncini e regali e brindisi tutti per me. Poi è arrivato il prete e ha minacciato di denunciarci perché la nonna chiedeva soldi alle amiche perché leggessi loro il futuro, allora abbiamo promesso di non farlo più. L’ho vista giurare su una bibbia di pelle scura tenendo le dita incrociate dietro la schiena, quando è stato il mio turno ho fatto la stessa cosa ma il prete se n’è accorto, c’era pietà nei suoi piccoli occhi scuri da topo e qualcos’altro che non avevo l’età per capire.

«Bambina, tu bruci.»

«Io non brucio.»

«Stai bruciando e non lo sai.»

Mi sono misurata la temperatura con il polso, la mia fronte era fresca e asciutta. Intendeva all’inferno, me l’ha spiegato dopo la nonna, mi ha accarezzato i capelli e calmato i pensieri, mi ha sussurrato che il mio era potere, non peccato, e che per gli uomini siamo tutte streghe e puttane, aveva detto proprio così, streghe e puttane. Avevo sedici anni e un dono: potevo leggere il destino sui palmi delle mani, allora ho imparato a disegnare mappe per orientarmi tra gli snodi, sembravano le linee di una metropolitana e invece erano quelle della vita. Quando ho mostrato a mio fratello la mappa che avevo disegnato per lui, mi ha riso in faccia.

«È troppo stupido, la mia vita non può essere legata al bagno di un hotel.»

«Quella di Giò dipendeva dal suo scoiattolo domestico, vedi tu cosa è meglio.»

«Basta con queste cazzate, per quel che ne sai tu potrei svegliarmi freddo domani.»

«Il primo febbraio del duemiladodici, per favore, resta nella vasca tutta la sera e non uscire.»

«Ma che cazzo ci faccio poi all’Astoria?»

«Questo non lo so, promettimelo e basta.»

«Va bene, Miriam, basta che non mi stressi. Se tra quattro anni, contro ogni logica e buon senso, sarò nella vasca dell’Astoria… non uscirò per nessuna ragione.»



L’attendeva un futuro meraviglioso che non si è lasciato raccontare, tutto bivi e poche salite, ma c’era quello snodo importante che avrebbe fatto la differenza tra una vita perfetta e la morte. Mi aveva giurato di dormire dentro la vasca, se necessario, così sarebbe stato al sicuro per sempre: avrebbe sposato una ragazza bellissima con l’accento del sud e nel giro di cinque anni sarebbero diventati genitori di due splendidi bambini, tanto simili a lui da far spavento.

Ma non è andata così, non è rimasto in quella vasca. Me l’ha raccontato Daniele, perché è da lui che è corso, è entrato al volo sulla sua auto con la pelle ancora umida. La notte faccio un incubo ricorrente: sono di fronte all’Astoria e corro veloce dietro di lui, urlo e lo inseguo ma non serve a niente, non mi sente, ha i capelli bagnati e quel sorriso che non gli ho mai visto prima. Sale sull’auto di Daniele come se si muovesse al rallentatore, si scambiano un bacio lunghissimo, ma questo Dan non me l’ha raccontato. Poi diventa tutto accelerato, l’auto corre, brucia l’incrocio, sento il rumore della frenata e poi lo schianto. Nel sogno, a volte, sono io a guidare l’altra macchina.

Mentre ero al funerale di mio fratello, Daniele era in ospedale malmesso ma vivo e io l’avevo odiato per questo. Si è presentato a casa mia due mesi dopo, con il braccio bendato e la stampella; bellissimo come quando a dodici anni mangiava il gelato nel nostro portico, come quando a sedici fumava di nascosto sul retro e a diciotto piangeva seduto sulle mattonelle giallo limone del nostro bagno, sempre con un segreto negli occhi. Vederlo malconcio ma vivo ha fatto evaporare la rabbia, allora l’ho lasciato entrare, anche se non l’avevo permesso a nessun altro, anche se l’ingresso era pieno dei fiori che avevo ricevuto per mio fratello e che avevo lasciato lì a marcire. Non ha commentato quell’odore umido e stantio né quella visione cimiteriale, non ci siamo detti una parola, abbiamo fatto l’amore per ragioni che nessun altro avrebbe capito. Guardarmi gli faceva male, ma mi desiderava come aveva desiderato lui e io volevo qualcuno che l’avesse amato quanto me. Stesa sul pavimento, in mezzo ai fiori che morivano, ero identica a lui: il mio braccio come il suo braccio, la mia bocca come la sua bocca, lo stesso profumo di shampoo alla menta. Ho premuto le dita sui lividi di Daniele e l’ho sentito trattenere il fiato, mentre il suo dolore fluiva via il mio riempiva tutti gli spazi vuoti del mio corpo, lo sentivo premere sugli organi e contro le pareti della pelle oramai incandescente.

«Sto bruciando?»

Quando abbiamo finito sono rimasta nuda, stesa sul pavimento, ho solo allungato il piede oltre il tappeto per raggiungere una superficie fredda abbastanza. Lui si è alzato piano con una smorfia di dolore sul viso, ma quando si è accorto che lo stavo guardando ha sorriso in quel modo rassicurante con cui ci si rivolge ai bambini.

«Resta lì, ci penso io.»

Ho lasciato che ci pensasse lui, a me, all’odore di chiuso, alla polvere posata come un velo su tutte le cose, alla morte. L’ho sentito zoppicare verso il salotto e mettere su un disco, Cassavetes dei Revolver, la sua preferita. Mentre il suono si espandeva nella casa ho cominciato a piangere, ho tirato le ginocchia al petto perdendo la percezione di quello che mi stava accadendo intorno. Avevo sempre considerato la vita qualcosa di opposto alla morte, un bivio sulle mie mappe e sulle mani, ma quando l’ho perso ho sentito la morte così vicina, reale. Non era un bivio ma un nodo, nel momento esatto in cui la vita si dissolve quello che resta è come un filo scucito, per sempre estraneo alla trama che ha interrotto ma comunque parte di essa. La morte è sempre stata lì, una volta che lo sai non puoi più dimenticarlo, ormai sei stata afferrata. Ormai sono stata afferrata.

Quando ho aperto gli occhi era già buio, ero ancora nuda ma Daniele doveva avermi posato addosso una coperta, avrei voluto alzarmi ma la gravità mi schiacciava contro la trama ruvida del tappetto. Ero di nuovo sola ma le piante erano sparite, l’aria sapeva di nuovo di casa vuota, di guscio disabitato. Non ho acceso le luci, ho lasciato che la notte restasse notte e che il dolore restasse dolore, sono rimasta sul tappeto e ho pianto ancora un po’, ho sognato lo scoiattolo di Giò che correva sulla ruota, ma al contrario, come se volesse riavvolgere il nastro di una videocassetta o del tempo.

Daniele è tornato, un giorno dopo l’altro, a preparare del cibo che quasi non toccavo, a riparare piccole cose come lo sportello del bagno, il rubinetto della cucina, avrei voluto chiedergli di riparare anche me o di buttarmi via come aveva buttato quei fiori appassiti. A un certo punto mi ha chiesto di farmi una doccia, con quell’imbarazzo scherzoso ma deciso da bravo ragazzo educato, da amico.

«Dai, da brava, ti ho comprato anche i tuoi yogurt preferiti, quelli senza frutta.»

«Ti sbagli, quelli erano i suoi preferiti.»

«Ma se quelli con i pezzi li lasciavate in frigo per settimane! Tuo fratello non me li faceva mai buttare via, neanche quando puzzavano di rancido.»

«Non ci arrivi, eh? Erano per me, li compravano sperando che riuscissi a mandare giù qualcosa.»

«Io non… non ne avevo idea, scusa.»

«Tu non mi hai mai vista.»

«Ti vedo adesso. Scegli: o ti fai la doccia da sola o te lo faccio io, ma sappi che l’unica cosa viva che io abbia mai lavato è stato Spike e non so come sia successo ma ha quasi perso la vista. Per colpa dello shampoo, ovvio, non mia.»

Mi ha portata in bagno poi, ha aspettato che l’acqua diventasse calda, ha lasciato che mi spogliassi da sola mentre armeggiava con il bagnoschiuma con il preciso intento di non guardarmi.

«Non c’è niente che tu non abbia già visto.»

«Non è la stessa cosa.»

«Fai il bagno con me?»

Una lieve esitazione, un impercettibile irrigidirsi della mascella, poi lo specchio appannato dal vapore, i suoi vestiti per terra, l’aria umida e dolciastra intorno a noi come nebbia sottile. Prima lui, poi io, in mezzo alle sue gambe con la testa poggiata sul suo petto.

«Ti ho visto piangere sul pavimento di questo bagno, una volta, eri così triste in mezzo a tutto questo ridicolo giallo limone. Era il giorno del vostro diploma, è stata la prima volta che ho avuto voglia di baciarti ma tu non ti sei voltato.»

«Me lo ricordo, mi aveva appena detto che dopo la consegna dei diplomi sarebbe andato a stare da vostro padre per un po’. Non l’aveva neanche avvisato. Sapevo che sarebbe finita malissimo, ma lo sai com’era fatto, non ascoltava nessuno.»

«Doveva solo restare nella vasca da bagno.»

«Non ci crederai sul serio?»

«Quanto poteva essere difficile aspettare un solo giorno.»

«Miriam, ascolta, è stata colpa mia.»

Non era vero, avrei voluto spiegargli che non era stato lui a scambiare i loro destini, ma ho trattenuto il respiro e sono scivolata nell’acqua, ho iniziato a contare alla rovescia sperando di sentire il tempo riavvolgersi. Volevo riemergere nella tinozza rosa di quando eravamo bambini, nel lago verde dove abbiamo imparato a nuotare con i braccioli, nella piscina extra-lusso dei signori Mian quell’estate ebbra dei nostri quindici anni. Volevo riemergere nella vasca dell’Astoria Hotel il primo febbraio del duemiladodici e non lasciarlo andare.






Gemella uno di tre, Stefania Covella vive in Salento e fa cinema nonostante il cinema. Scrive sceneggiature, racconti (pubblicati su Il Saggiatore e COYE) e ha una rubrica su Fabrique du Cinéma. Sui social la trovate come @saudadeste.

illustrazione Bivi - Stefania Covella - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Bivi”, un racconto di Stefania Covella per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni