Cava
La luce è tutta alle spalle della pietra. Centomila metri di rocce spaccate, la bocca aperta a coprire una parte di cielo. L’aria ha un colore di sabbia, in mezzo alle pietre chiare ogni rumore di passo scalpiccia e ritorna. Al pomeriggio, quando il sole comincia la lunga curva del tramonto, la montagna è una mezza conchiglia che contiene tutto.
Il maiale si guarda intorno. Resta fermo e incrocia lo sguardo dei ragazzi. Prende a muoversi lento, si blocca e annusa l’aria, si rigira e scruta. A un centinaio di metri i ragazzi non si scompongono, lo fissano cercandogli i piccoli occhi. Respirano piano, come se quello potesse sentirli. Il maiale, grosso e rosa nell’orizzonte sfocato, si fa nervoso. Per qualche motivo nella sua testa decide di attaccare. Trattiene qualcosa nel muso proteso e carica, con le orecchie in avanti, il naso arricciato.
Corre.
Corre a testa bassa.
Fino a quando tre rumori rompono il silenzio, filando nell’aria uno dopo l’altro. Tre colpi secchi. L’animale cade sbuffando un vapore colorato. I ragazzi ritirano le braccia tese, le pistole puntate a terra, si guardano compiaciuti. Il porco è stramazzato con due colpi in fronte e uno nel muso, la faccia esplosa in un groviglio di sangue. E i filamenti di pelle rosa dappertutto. E il suono acuto, il lamento strozzato, da qualche parte.
«Aveva preso coraggio,» dice Principe.
«Bravo,» risponde Cavaliere.
«Fossero tutti così.»
I due parlano senza guardarsi. C’è un silenzio di secondi.
«Ci vuole il coraggio, se no che senso ha?»
«Qualche volta serve a qualcosa.»
«Stavolta no.»
I ferri sono ancora caldi. Ogni tanto si sente un verso d’uccello in lontananza. La carcassa del maiale sta sul terreno, pesante come un sacco.
«L’ho centrato in mezzo agli occhi,» spiega fiero Cavaliere. Parla a se stesso.
«Un tiro solo. Perfetto.»
«Non hai vinto niente.»
«Per ora.»
«Fai una cosa,» chiude Principe con un sorriso cattivo, «prendi due salsicce.»
Sovrano non parla. Tiene la pistola e ascolta.
Il giro di prova si chiude. Ciascuno prepara il suo meglio, mira e dedizione. È tempo di sgomberare il cervello e le chiacchiere. Da adesso con un tiro si decide chi vince e chi perde.
In mezzo alla spianata, all’altro estremo rispetto ai ragazzi, dallo stesso punto dov’era apparso il maiale, spunta un cavallo. L’animale è vecchio ma non sta fermo. Corre e scalcia lungo l’intero arco di fronte ai tre, costeggia le pietre che risalgono. S’impenna e nitrisce in un cerchio di polvere. Si muove e resta lontano, fuori portata. Abituato a stare rinchiuso, sfoga sbattendosi come può in un raggio che si porta nella testa. Sente la gabbia intorno. Tiene un trotto veloce, accelera e di nuovo rallenta, scalcia nel vuoto, sembra rispondere a dei comandi. Come non avesse volontà e agisse seguendo un perimetro invisibile. La sua schizofrenia non agita i ragazzi, che lo fissano senza scomporsi. Lui aumenta il passo, prende il galoppo, il rumore degli zoccoli si mangia il silenzio e incalza. Finché esce dalla zona di sicurezza e arriva a tiro. Il primo dei pistoleri prova la mira, muove il braccio lentamente. Segue il cavallo, la calma del suo gesto si contrappone alla foga dell’animale fino a un punto perfetto, in cui le traiettorie arrivano a contatto.
Lo sparo trancia la gamba anteriore, il cavallo perde l’asse e rovina scomposto. Senza più grazia, rotola smembrato, lanciando un verso stridulo. Gli altri due aspettano. L’animale si trascina, sbanda nella polvere disegnando una resa poco per volta. Reagisce, prova a rialzarsi, spinto da un residuo di forza che ancora lo regge. Il secondo colpo raggiunge la gamba posteriore e lo stramazza a terra. Il terzo, subito attaccato a pochi secondi di distanza, centra in pieno la testa, che libera un potente fiotto di sangue.
Sovrano dischiude le labbra e respira.
Gli altri due restano immobili.
La corsa è finita, il cavallo rantola e si accascia fino all’immobilità, in un lago di sangue scuro.
Principe cerca qualcosa con lo sguardo.
«A che pensa?»
«A che deve pensare,» risponde Cavaliere. «Non lo sa. Sta in mezzo alle pietre, sperduto, e poi sente un botto.»
«Dici che non se ne accorge,» risponde Principe.
«Muore e basta.»
«E se non muore per il colpo, muore di paura.»
Sovrano non risponde. Li guarda e si volta verso la cava.
Il rumore di una folata di vento arriva da un lato della pietra. Qualcosa come una macchia prende quota in aria, prima compatta e poi distinta. Si muove coordinata per un arco di tempo. Comincia a sfaldarsi, e gli uccelli, tutti di un colore marrone scuro, prendono le loro direzioni. I tre sono pronti, gli spari cominciano subito dopo l’apertura dello stormo. Il gioco diventa difficile. La mira è messa alla prova dal movimento e dalle dimensioni degli obiettivi. Dalla parte dove sono apparsi i volatili, ancora sotto l’ombra e nascosta da un accumulo di arbusti e da un muro grezzo, c’è una costruzione. Lì stavano le bestie in attesa, destinate alla giostra, liberate per attirare le armi e scandire la competizione. Se ne stavano chiuse in gabbie o ceste a seconda della mole, eccitate e spaurite, prima dell’ultima corsa. Era una fatua illusione con poche eccezioni. A volte capitava che una bestia sfuggisse al plotone, ai pistoleri in attesa. Serviva una rara combinazione di velocità e distrazione. Scatto e fortuna. La stessa di chi precipita nel vuoto, dall’alto di un palazzo, di un aereo o della stessa montagna di pietra, e sopravvive.
Due uccelli cadono al suolo, abbattuti dal fuoco. Non è chiaro chi ha colpito, chi ha mancato. Sovrano tira un respiro.
«Si spara a piacere,» gli fa Cavaliere, «è un gioco.»
Principe prende il pacchetto di sigarette dalla tasca e lo offre agli altri.
Sovrano ne prende una e la poggia tra le labbra, senza distogliere lo sguardo. Senza parlare.
«Un minuto e ricominciamo,» dice Cavaliere.
Principe lo asseconda.
«Vediamo che succede.»
«Alla fine facciamo i conti.»
Sovrano è il più silenzioso del terzetto. Si limita ad ascoltare. Trattiene il fumo in gola, se lo passa in bocca e lo libera lentamente verso l’alto, restando col corpo e il viso immobili. Sembra lì per caso, a guardare uno schermo, per niente sorpreso dalla dimostrazione.
Un filo grigio si addensa sulle ombre dei ragazzi prima di perdersi nell’aria.
«Quando vuoi tu,» annuncia Principe.
Il pomeriggio ha smesso la risalita. Il vento sgombera il campo per darlo al buio.
Dalle spalle dei tiratori sbuca un gatto, passa tra le loro gambe e raggiunge la spianata, la paura lo muove dall’interno, è scosso dai botti e dalle vibrazioni amplificate dalla montagna. L’eco lo ha tradito, facendogli abbandonare il riparo dove era acquattato, mettendolo allo scoperto, sull’asse di tiro, con i colpi a stordirlo del tutto. È lo stesso incanto di fronte alla luce dei fari, quando i gatti di strada si bloccano per reazione. Lo stesso sconcerto li fa vittima senza scampo, prima di spazzarli via o schiacciarli sull’asfalto. Se il bagliore li ferma, gli spari li fanno impazzire in una corsa senza senso.
I pistoleri lo seguono e puntano le armi, a partire da Principe. I suoi due colpi vanno a vuoto, sollevando sbuffi di polvere. Cavaliere lo segue e manca il bersaglio. Per ultimo spara Sovrano e il suo volto sembra della stessa materia della pietra. Il gatto, animato da una scossa invisibile, inverte la direzione radente al suolo, fino a guadagnare la pendenza più dolce delle pareti. Sovrano spara ancora, il proiettile fischia nel nulla. Il gatto scompare con un salto e diventa un fantasma. Dopo i rimbombi la valle torna al silenzio. Un vento placido accompagna la fine della luce.
Al buio la mira è impossibile. L’unica è sparare a caso nell’ombra. Si buttano i colpi e non ha senso.
Sovrano è impaziente, pensa che per oggi può bastare.
«Aspettiamo,» dice Cavaliere, come lo avesse sentito fin dentro la sua testa, mentre tiene gli occhi fissi davanti a sé. Principe si volta e li guarda con aria soddisfatta.
«Quando c’è il sole è facile,» dice Cavaliere, «ora l’occhio e la mano contano solo in parte. I bersagli si abituano. Loro ci guardano e noi no.»
Sovrano prende le misure al buio. Tiene i nervi vicini alla pelle in ogni sua parte. Non è tranquillo.
L’aria cancella il profilo dei volti. Solo gli occhi e i denti si fanno intuire. La vista lascia il posto alla fame, i movimenti si riducono e i tre prendono fiato per la concentrazione. L’atmosfera si riempie di tensione.
«Riesci a vedere?» chiede Principe a Sovrano, che per risposta carica l’arma e non dice niente. Su di loro volteggiano cerchi di avvoltoi immaginari, in una gola di frontiera tra due mondi. Senza il conforto della luce, il panorama si trasforma.
Il rombo di un motore si annuncia a distanza. Compare una macchia, più scura della notte. La macchina fila per una manciata di secondi nella spianata fendendo la cappa. La luce dei fari accesi di colpo è la sola nel raggio di miglia. I fasci inquadrano la polvere sospesa, le gomme stridono sul pietrisco. L’auto percorre la linea più lontana dai pistoleri frenando e ripartendo. Punta gli occhi elettrici e arriva al centro del falsopiano, infine si dirige verso la zona di tiro.
Non appena i fari illuminano i tre partono i primi colpi. Sono ordinati, regolari, esplosi con la calma e il polso necessari. Nessuno perde concentrazione, neanche quando il muso della macchina si avvicina, stagliandosi con una linea retta contro di loro. La carrozzeria blindata respinge i proiettili da guerra, tranne due. Sono i soli ad arrivare a destinazione, nella pasta dura delle gomme, ma non fermano la corsa. Non la rallentano.
L’auto inverte la direzione con una manovra, riparte a tutto gas e raggiunge di nuovo la parete di fondo, fino a sparire. Poi i fari si spengono e lasciano la notte su tutto.
Di fronte si muove un corpo indistinto. Si percepisce appena.
«Che animale è?» pensa Sovrano.
Gli occhi restano a guardare, aspettano uno scarto.
Fin quando la pelle nuda della ragazza emerge chiara, opposta alle ombre. E il dubbio è costretto a recedere. Compaiono il viso e i dettagli. Si fanno più precisi. La voce, quella che arriva, ha la forma di un lamento. Somiglia al verso di un animale, confuso dallo sconcerto dei pistoleri.
Gli spari nella cava sono come parole. Con l’oscurità le cose da dire hanno perso il suono. Le traiettorie dei colpi sono i soli discorsi possibili. Non sono echi e bersagli, ma frasi, forme elementari di parole. Quando lei è vicina, quando il suo corpo intero si mostra con un’ombra evidente, i tre non parlano. Lei è nuda e si muove a tentoni, come accecata. La sua sagoma avanza scomposta, non si regge in piedi.
Sovrano tira un respiro profondo, largo quanto un orizzonte. Ogni cosa prende a sbattere nella sua testa in tutte le direzioni, conferendogli una immobilità totale. Non parla neanche ora, trattiene tutto e socchiude gli occhi, provando a non guardare. Vorrebbe cancellare la ragazza dalla sua percezione e da quella degli altri, come non fosse mai esistita. Chiude gli occhi, pensa che le palpebre potrebbero coprirla, mettergli un vestito, addosso farla sparire. Quando li riapre la donna è a tiro.
Una lacrima gli cade come un oggetto o un pensiero minuto. Fa rumore.
Cavaliere e Principe si voltano a guardarlo nello stesso momento. Mostrano il muso sollevato a fare paura, i volti tirati nell’ombra.
La donna corre priva di orientamento, si avvicina. Davanti a Sovrano, lo guarda per un lungo intervallo in cui passano i pensieri. È uno spazio di ragioni e cose trascorse insieme, il senso di appartenenza che lega la terra ai minerali. La domanda e la risposta restano ferme e non si pronunciano. Entrambe riguardano la permanenza.
Le pistole di Principe e Cavaliere sparano. Un rimbombo sfasato di millesimi di secondo si perde nell’ampia volta della cava. Non c’è niente diverso dal buio, neanche la fine di un respiro, il colore del sangue. È un finale, una specie di amore, perduto per sempre nella pietra.
Alfonso Tramontano Guerritore nasce a Nocera Inferiore il 29 dicembre del 1978. Giornalista professionista, per il teatro ha scritto “Esercito d’amore”, “Fiore Ammazzato”, “Le porte del rigurgito”. Nel 2019 ha pubblicato “Gli stati dell’acqua”, premio Beppe Salvia, Lietocolle editore e ha scritto il cortometraggio “Tonino”. Suoi testi compaiono su riviste e antologie. La raccolta “I fetenti” ha ottenuto la menzione al premio Calvino 2020.