Coinquilina
Ho abbassato la serranda. La stanza è in penombra. Sono arrivata per prima e decido così. Appoggio la schiena al muro, attorciglio il lenzuolo tra le mani, fuori il camion della spazzatura si ferma, poi riparte. Il ticchettio dell’orologio sembra pioggia dietro il vetro del quadrante. Il letto di fronte al mio è vuoto. Prendo il telefono dal comodino, occulto il mio numero: squilla. Squilla infinitamente ma nessuno risponde.
La mattina mi sveglio inquieta. Non ho smesso di stringere il lenzuolo e mi fanno male le dita. Vago in cucina, bevo il caffè avanzato dalla sera, impiego il tempo a strappi. La maniglia si apre, il mio cuore sussulta. È un po’ pallida, ha il viso stanco, ma non sembra in vena di isterie. Ha dormito sul divano, penso. Mette a bollire l’acqua per il tè. Ça va, rispondo, grazie, ho dormito bene, al buio. Mentre sbuccia una mela, seduta sulla sedia impagliata, la scruto: i suoi capelli biondi, crespi, fermi, la sua fronte alta, le due verruche blande, grigie, sulla guancia sinistra e appiccicata al sopracciglio destro, gli occhi azzurri, inclinati verso il basso, vigili, che non sembrano buoni, neanche cattivi, ma accaparratori. Soprattutto se di fronte hanno il nulla, come adesso. Capisco, ogni volta che la guardo, quanto è lontana, precisa nella sua arte di essere Marta. Sola, in questa precisione, egoista, a spasmi, attraente.
Se non so cosa fa, dov’è, dove va, se si veste con una gonna longuette, si prepara, spazzolando i capelli allo specchio, spennellando di fard le guance, se abbottona la camicetta, tira su la cerniera degli stivali e chiude la borsa, io impazzisco. Mani chiare e affusolate, come il suo corpo, invadono la mia mente. Tento allora, con tutte le mie forze, di inserirmi tra le lunghe dita e d’improvviso la vedo, nuda, lo sguardo immobile, le labbra poggiate una sull’altra ad aprirsi lasciando qualche fessura di buio tra il bianco smaltato dei denti larghi. Lei sorride così, quasi per sbaglio. Poi torna seria, su un divano marrone che non conosco, che non ricordo. I suoi piedi sono piccoli e tozzi, l’alluce e il trillice leggermente deformi, con le unghie smaltate di rosso. Poggiano uno sull’altro. Sono io, che giungo, nel tuo corpo, nel tuo smalto rosso, nei pensieri. Li conosco a memoria.
Mi sdraio per terra, respiro, la luce mi inonda dalla finestra su cui la polvere disegna costellazioni casuali, arbitrarie. Mi rialzo, leggo qualcosa. So tutto di lei, ovunque, anche se Marta, purtroppo, crede il contrario.
Marta non fuma e fa di me un’esistenzialista. Quando balla, col suo vestito giallo e largo, le piace saltare. O, come spesso accade, evadere la festa per un nonnulla: la gelosia, le sue urla per un bacio che qualcuno dà, sono meccaniche, folli. Tradisce il gioco, sarebbe la sua accusa. Evaporo, sono aria lieve sulle mura immacolate: ascolto i pianti, i vilipendi che scrosciano, come un mare scuro e rabbioso, dalla sua bocca schiumante. Le sue aggressioni. Sbatte il libro sul tavolo, lancia una tazza contro la porta, parlando trema.
A volte vorrei entrare e trafiggerle la fronte enorme con un colpo preciso, un fulmine. Poi mi consolo e la lascio deflagrare nella sua voce. Altre volte parla di me senza parlare di me. Dopo aver fatto l’amore. La indispettisco, sì, le tolgo soddisfazione. Fa l’amore soltanto per ricordare, per ricordarsi, quando deve rientrare, di avere un alibi, per dare la colpa a qualcuno che non sia se stessa. Così offusca l’equivoco. Finge di non sapere.
Questa casa in cui viviamo, qui è avvenuto l’incontro, e non ci conoscevamo. Marta ha forzato la serratura. Si era innamorata, diceva, dei balconi stretti tra il tetto e i cieli, delle ringhiere arrugginite. Io ero di passaggio. Mai avrei pensato di fermarmi. Ma ho accettato. Quando parlavamo, all’inizio, sembravamo due facce di un Giano bifronte: stesso timbro di voce, stessa forma di naso. I nostri sguardi non si incontravano mai. Adesso che le porte scricchiolano stiamo in silenzio per non assordarci. Guardiamo fuori.
Più passano i giorni più Marta rientra dentro il suo corpo, senza alcuna crisi da inventare: l’acqua che beve dal rubinetto la avvelena. Nel letto si contorce, le lenzuola assorbono il suo sudore. Diventa vecchia, ripetitiva.
Cammino per il corridoio e tra la luce che alle sei del pomeriggio smette di ossessionarmi mi rifletto sullo schermo della televisione spenta, nell’anta dell’armadio, sul vetro della finestra, della credenza dove avremmo un giorno sistemato dischi, pipe, liquori. Osservo il mio riflesso contaminato: perché, nell’invisibile, passa continuamente anche il suo. I cassetti conservano memoria dei suoi odori. Le sue mani hanno lavato, graffiandolo, il marmo, l’acciaio delle pentole.
Guardo alcune fotografie abbandonate in fondo a una cesta, scattate in questa casa, che questa casa ha scattato di lei, mentre taglia una fetta di torta, mastica un boccone, si guarda allo specchio, appena sveglia ha gli occhi minuscoli. È una bellezza che lascia dentro un senso di squallore. Se lo specchio potesse sprigionare il suo specchiarsi chiunque se ne accorgerebbe. Sarà la sua immagine a sbriciolarsi.
Fa la doccia, usa il mio shampoo, siede sul water con un sospiro di pipì, strofina con un dito le gengive. Ma non vede nessuno. Turbata dagli spioni e dai complotti sbatte così forte la porta che nevicano dei calcinacci. Anche le mura piangono di esasperazione. Poi fa avanti e indietro, sul pavimento scarno, con le ciabatte verdi: un fruscio che non sostengo. Trattengo il fiato. Origlia. Strega, urla, le piace chiamarmi così. Eppure, come un’eco fatale, ripeto soltanto i suoi gesti e le sue parole. Non si accorge che strega lo dice a se stessa. Che non ho colpa.
Io rimango intoccabile, un segreto incavato. Lo ha deciso la casa: le mie braccia sono d’intonaco, le mie finestre occhi enormi. E una casa conosce tutte le sue ombre.
Marta sa di non essere più benvenuta, che è ora di andare. La seguo fin lì dal balcone, tra il tetto, i cieli, le antenne, gira l’angolo con passi frettolosi. Inciampa ma non cade.
Nella parete di fronte alla porta appendo un quadro. L’ho trovato dentro l’armadio, avvolto in una coperta ruvida, blu a righe marroni. Il quadro raffigura un volto contratto che si regge la testa capelluta tra le mani: gli duole enormemente. Stringe le mascelle, serra le labbra, ha gli occhi socchiusi, quasi soffoca. Marta, in piedi, lo guarda. Posso sentire il battito del suo cuore accelerare. Il bicchiere d’acqua che tiene in mano cade e si frantuma. Il volto nel quadro è stupendo. Dietro i suoi lineamenti, in lontananza sulla tela, gli oggetti della casa scorrono appesi a un filo, come il bucato: la credenza, le pentole, il letto, una poltrona cava, la caffettiera, una bottiglia, le lenzuola, lo specchio, la coperta. Si riconosce anche lei nella tela: sta precipitando a testa ingiù, piccola ma inconfondibile. Esce dall’orecchio del volto che la espelle. Ha le braccia che pendono, i capelli biondi sparsi a forma di serpenti, la maglietta verde abbassata quasi a scoprire un seno. È Marta, glielo ricordano perfino le verruche: due piccoli puntini grigi, inconfondibili.
Il telefono squilla da una stanza all’altra, rimbombano i vetri, le porte. Sulle pareti danzano allungandosi le ombre. Nessuno risponde, e i pianti, gli insulti, le promesse, le richieste di pietà, piano piano si affievoliscono, si spengono. Fuori da qui, nel silenzio beato: arriva a terra da sola. Sfracellati.
Maristella Bonomo (Catania, 1979) si laurea in cinema al Dams e consegue il Dottorato in Italianistica a Bologna. Studia Film writing e Creative writing alla Columbia University. Pubblica due raccolte di poesie, Passi segreti (2008) e Blu ritratto orizzontale (2020), un libro di racconti, Riflessi (2009) e un romanzo, Navel (2018). Da regista realizza il corto in pellicola Sdrvgd’t (Svegliati!). Traduce dal francese il romanzo Paradiso coniugale di Alice Ferney (2013) e dall’inglese la raccolta di prose poetiche La riproduzione dei profili di Rosmarie Waldrop (2021). Si occupa di sceneggiatura e scrittura creativa.