Due che litigano
Non si sa perché, ma quando si litiga uno sta sempre seduto e l’altro in piedi. Uno poggiato al muretto, al motorino, al palo e l’altro senza appoggi. Uno fermo e l’altro che si agita, misura la stanza camminando, si sfoga in operazioni microscopiche e vane, che per lo più serviranno a ridurre un vecchio biglietto della metro in parti infinitesimali. Mi chiedo sempre se la collocazione dei litiganti influisca sull’esito della vicenda e chi dei due, guardando l’altro dalla propria prospettiva, si senta il più forte. Il fatto è che, in ogni caso, il più forte è sempre quello che fra i due riesce a stare fermo.
Nelle stanze in cui si litiga, prima che il litigio esploda in diecimila pezzi, ognuno sa che dovrà battere l’altro sul tempo per aggiudicarsi la poltrona prima che venga occupata. La poltrona sembra sempre assicurare una certa supremazia. L’altro, invece, si prenderà il bordo del letto. Il tappeto. Lo sgabello. O starà in piedi e camminerà per la stanza. Quest’ultimo proverà anche la voglia di dare un pugno al muro, ma dovrà fermarlo il pensiero che con una mano rotta poi non potrà lavorare. Allora, per ripiego, inciderà con un’unghia, quella dura del pollice, il piano di legno della scrivania. Anche di questo, comunque, il giorno dopo si pentirà, recandosi silenziosamente a comprare un vasetto di cera.
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«Non l’ho fatto mica perché ti odio,» provo. Nei litigi, sempre seduta sul bordo di qualcosa, protesto con frasi melodrammatiche e mainstream, come se questo potesse buttarci addosso un applauso a scena aperta, o proiettarci nel finale di una pellicola. Vorrei davvero che per una volta finisse come nei film: che fuori iniziasse a piovere a secchiate, proprio con quella potenza hollywoodiana, o piove così o niente, e che all’improvviso ci trovassimo fuori da un taxi con un gatto bagnato da riportare a casa. Io lo metterei dentro all’impermeabile e tu mi baceresti un bacio di quelli disperati e matti e che proseguono oltre il taglio della scena.
«Be’, di certo non l’hai fatto per amore,» risponde lui.
Di cose vorrei dirne, a questo proposito, mentre con un piede negligente copro il punto di fuga fra quattro mattoni. Forse ribadire l’ovvio, ma almeno provare a dire che credo davvero che il resto dell’amore non è l’odio, che non è o bianco o nero, o bello o brutto, ma ci sono le intercapedini. Nelle intercapedini, a volte, la polvere; ma pure, nella polvere, interi universi. Dire questo, o qualcosa di simile, o qualcosa che ignoro. Poi vorrei fermare la mano che, in un sol colpo, minaccia di spazzare via tutto. Invece non dico e non faccio.
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Così dal nulla, senza pensare o proprio invece pensandoci, mi porta un bicchiere d’acqua: aspetta che io beva e lo riempie di nuovo. Poi mi passa i kleenex e mi ci asciugo gli occhi e tutta la faccia in tondo. Stringo forte le palpebre, come fossero un cencio: così vorrei strizzar via tutto il pianto.
Però quando riapro gli occhi, senza guardare fuori, so che cosa succede. Almeno stavolta, per una volta, ha iniziato a piovere.
Giulia Scialpi (1997) è laureata in Italianistica alla Scuola Normale di Pisa. Ha pubblicato racconti su diverse riviste (Pastrengo – rivista e agenzia letteraria, Narrandom, In fuga dalla bocciofila, Cedro mag.) e un suo testo è apparso nella traduzione inglese di Rachele Salvini sul primo numero annuale (2021) di Modern Poetry in Translation.