Duplex
Giosuè bazzicava nel parcheggio dietro al cimitero, occupava il tempo a rincorrere i gatti, osservare il movimento degli alberi mossi dal vento e inscenare monologhi fatti da versi animaleschi e parole pronunciate male. Chi passava di là si fermava ad ascoltarlo, così, tanto per ridere.
La madre gli morì mentre lo partoriva e le famiglie decisero che sua zia, Laura, si doveva sposare col cognato, il barbiere. A loro sembrò la cosa giusta da fare. A lei no.
Provò a ribellarsi e minacce e lividi dappertutto. Dal primo giorno di matrimonio non ebbe potere sull’educazione di Giosuè; doveva solo lavorare al Salone, lucidare casa e preparare da mangiare.
Di nascosto cominciò a bere e a prendere pillole. Quando il barbiere la scoprì, la spinse a bere di più. Le portava ogni giorno una bottiglia da quattro soldi che lei si scolava tra una pillola e l’altra e le bottiglie da una diventarono due, tre.
Il barbiere lo inquadravi una volta e non ti andava più di vederlo. Emanava un senso di viscido come le serpi. Ai 101 alloggi tutti sapevano che abusava di Giosuè.
I ragazzi ammucchiati sotto ai porticati a fumare e parlare di calcio e donne, quando vedevano Giosuè passare, attaccavano con gesti che simulavano i lavori di bocca, poi fischi, bacetti e risate. Lui proseguiva a testa bassa. Qualcuno di loro l’aveva seguito dietro al cimitero e con la scusa di ascoltare i suoi monologhi si era fatto fare i lavori di bocca.
Sotto ai porticati c’era pure Benni, vent’anni, occhio sinistro ammarrato, pancia gonfia. Se ne stava sopra a un motorino a mangiare Simmenthal dalla scatoletta dopo il fumo e a squadrare tutti. Benni c’aveva un bull terrier a cui spesso ordinava di attaccare Giosuè e lui a correre e il bull terrier a inseguirlo per duecento metri circa prima di mollarlo. Una volta Giosuè inciampò nei lacci delle scarpe che portava sciolti e cadde faccia a terra. Il bull terrier gli azzannò il polpaccio. Dovettero mettergli i punti di sutura e fargli l’antitetanica.
Quell’estate il parcheggio dietro al cimitero fu assediato da parcheggiatori abusivi fumatori di crack che non volevano Giosuè tra i piedi, se ne dovette andare. Lui lo sapeva però che verso la fine della strada ci stavano altri terreni da esplorare e proseguì in mezzo all’erba alta; raggiunse una collina fatta di vigneti e qualche baracca sgarrupata. Salì la collina fino a su a tutto e restò immobilizzato a guardare il panorama. Lo spiazzale dietro al cimitero non gli sembrò enorme come aveva sempre creduto e questo provocò in lui un breve lampo di tristezza. Poi girò il collo verso ovest sui 101 alloggi: le palazzine con le loro crepe, la puzza di muffa nelle camere, il piscio nei sottoscala, i ragazzi sotto ai porticati, le liti dei vicini che era come averceli in casa, il freddo d’inverno per i termosifoni scassati e il caldo umido afoso d’estate e il barbiere gli sembrarono staccarsi da sé. Aveva trovato un nuovo luogo dove potersi rifugiare e occupare il tempo.
Uno di quei ragazzi dei porticati, Fabio Forgione, anni diciannove, tutto nervi e magro spigoloso, che era stato in riformatorio, si mise sulle tracce di Giosuè. Scoprì che adesso bazzicava sulla collina in fondo alla strada del cimitero. Lo raggiunse e gli ordinò di seguirlo, lui obbedì. Obbediva a chiunque, e questo faceva sentire le persone attorno a lui potenti. Col motorino raggiunsero una zona residenziale da ricchi, fatta di ville a due livelli con ampie finestre che davano sul mare. Fabio si fermò davanti a una di quelle ville e spense il motorino.
– Bello qua, eh? – Giosuè fece su e giù con la testa. – ‘Sti bastardi c’hanno i soldi veri.
Da dietro a un albero uscì Benni col suo bull terrier al guinzaglio. Giosuè, non appena li vide, tentò di scappare.
– Tranquillo… – gli disse Benni acchiappandolo per un braccio.
La smise di opporre resistenza.
– Ci devi dare una mano, Giosuè. Stasera veniamo qui con l’altro amico nostro che c’ha il furgone. Dobbiamo entrare là, – indicò la villa.
Tutti e tre guardarono la facciata bianca illuminata dal sole. Più splendente del sole.
– ‘Sti bastardi. – ripetè Fabio e si accese una Marlboro.
Benni cominciò a spiegargli il piano: – Io alla guida. L’amico nostro e tu e Fabio dentro, – gli parlava come certi parlano agli stranieri, che secondo loro non capiscono l’italiano, pur capendolo.
Giosuè arrossiva e si mordeva inquieto il labbro di giù ricurvo nelle spalle strette in dei vestiti di tre taglie più grandi appartenuti chissà a chi. Benni a vederlo gli scoppiò una risata che fece abbaiare il bull terrier.
– Ohhh! – La bestia non la smise e lui gli diede un calcio. – Cane di merda!
– Non è niente, Giosuè, – riprese Fabio per tranquillizzarlo e gettò la sigaretta. – Ascoltami ora, dentro c’è solo il vecchio e a lui ci penso io. Tu devi solo fare come ti diciamo noi.
– Come ti diciamo noi, – sentenziò Benni. – Ok? – Giosuè non rispose.
Gli sferrò un pugno allo stomaco e lui si piegò a terra dal dolore.
– Che fai?
– Non rispondeva.
– E tu lo colpisci?! Sei cretino?
– Ma non rompere le palle…
– Calmo!
– Calmo tu!
– Dai, Giosuè. Alzati. Fai un bel respiro, così… – Fabio inarcò le braccia e tirò l’aria dento ai polmoni e la cacciò fuori.
Giosuè sul volto aveva chiazze dal bordò al violaceo. Tossì e inarcò le braccia e tirò l’aria dentro ai polmoni e la cacciò fuori imitando Fabio.
– Il vecchio e la cassaforte è roba mia. Tu aiuti l’amico nostro a riempire i sacchi. – Giosuè mosse di nuovo la testa su e giù. – Bravo!
L’amico col furgone non era altro che il padre di Benni. Sui cinquantadue, pancia gonfia, occhio sinistro ammarato.
– Il figlio scemo del barbiere mi avete portato?!
– Alberto non voleva venire, pa’.
– Quello stronzo di suo fratello?
– Se ne è andato a Londra.
– A Londra… – sputò fuori dal finestrino robaccia verde.
– Non è proprio scemo, – intervenne Fabio.
– Chi t’ha detto di parlare? – Seguì un breve silenzio. – È tua l’idea di portarmi il figlio del barbiere? – Fabio non rispose. – Va bene, ho capito… lo scemo è con noi, ma se non fa come gli dico… – accennò uno schiaffo che si allentò qualche centimetro prima dalla bocca di Giosuè.
– Vedrai che ti ascolta! – ribadì Fabio.
– Ancora parli?
Con un gesto nervoso l’uomo mise in moto il furgone e accese lo stereo. Radio Italia stava passando Bella d’estate di Mango.
Quella sera il barbiere, come faceva tutte le sere, quando Laura si addormentava sul divano fradicia di vino e pillole, si mise nella vecchia Panda color bacinella per il bucato e raggiunse via Lungolago. Passò davanti ai bar, ai pub, ai ristoranti affollati di gente e tirò diritto. Tra una pompa di benzina e un’officina meccanica dalle serrande abbassate, l’aspettava Lorenzo. Genitori medici, fratelli avvocati, poi lui croce e vergogna, da un anno aveva iniziato a farsi e a prostituirsi. Lorenzo salì nella Panda e il barbiere senza dire una parola, senza guardarlo, gli allungò la roba, fece inversione e tornò verso i 101 alloggi.
Il papà di Benni accostò al muro ricoperto d’edera e Fabio scavalcò. Una volta dentro, aprì il cancelletto e gli altri entrarono. Benni si piazzò dal lato guida. Il vecchio stava in soggiorno a leggere nella sua poltrona, illuminato da una lampada ad arco. La finestra era aperta, faceva un caldo d’andarsene al mare di notte, eppure in quel posto da ricchi l’odore dei gerani e il suono dei grilli rendevano l’aria piacevole. Come se l’afa che ti toglie l’ossigeno riguardasse soltanto i quartieri dei miserabili, degli ultimi.
– Sveglia! – gridò Fabio.
Non ebbe il tempo di alzarsi dalla poltrona, di pensare, che si ritrovò una lama alla gola. Fabio era svelto e odiava quelli come lui, distanti anni luce dalla sua vita di riformatorio, genitori truffaldini carcerati e una sorella che non voleva più saperne della famiglia. Lei emigrata a Brescia, operaia in una fabbrica di lampadari, sposata e madre di un bambino.
– La cassaforte, sennò ti sgozzo come un porco!
– Va bene. Ma non farmi male.
– Muoviti!
– Sopra. In camera da letto.
Il padre di Benni dava indicazioni a Giosuè.
– L’argenteria! Butta nel sacco! Io mo’ faccio gli altri cassetti.
Giosuè tremava e cercava di riempiere il sacco di posate e vassoi e utensili vari senza far cadere niente, ma urtò un grosso vaso di porcellana che si frantumò sul pavimento.
– Imbecille!
Davanti alla cassaforte il vecchio si pisciava nelle mutande e gli colava merda sciolta da dietro.
– Fai proprio schifo! Ecco perché le tue figlie e tua moglie non ti hanno portato in vacanza.
– Che ne sai di loro?
– Sappiamo tutto, noi. E ora muoviti.
In cassaforte c’erano pochi contanti, un paio di collane d’oro, un Rolex.
– Cazzo!
– Il resto è in banca, mi dispiace.
– Ti dispiace! Bastardo schifoso. Ti dispiace… – gli diede una testata sul naso e un pugno allo stomaco. – Il vecchio si afflosciò in lacrime. – Spero che la tua giovane moglie se la stia chiavando qualcuno al posto tuo.
Fabio raccolse tutto e si fiondò di sotto.
– Pochi soldi in cassaforte. Un Rolex e due collane…
– Va bene così, ora usciamo.
– Giosuè! Andiamo, su.
Il Ford Transit di terza mano veniva fuori dalla zona residenziale a gran velocità.
– Sarai pure mezzo scemo, ma sei più svelto di mio figlio.
– L’avevo detto che ti avrebbe ascoltato…
A Benni non piacque il commento del padre; lanciò un’occhiata a Giosuè e tornò a guardare la strada davanti.
– Lasciali a 200 metri e vai dove ti dico io.
– Sì.
– Cosa?! E la parte mia?
– Che parte?
– La mia.
– Non mi risulta.
– Benni che vuol dire non gli risulta?
– Che non avrai niente. Ecco che vuol dire, – gli rispose il padre di Benni.
Alla rotonda il Transit s’inchiodò.
– Giù! Veloce!
– È uno scherzo? Quel vecchio schifoso avrà chiamato le guardie. Sarà pieno di guardie tra un po’.
– Ho detto giù! – cacciò la pistola e gliela puntò alla fronte.
Fabio si sentì uguale a Giosuè che obbediva a chiunque. Avrebbe dovuto camminare molto prima di arrivare ai 101 alloggi e per giunta senza la sua parte. Rubò una macchina. Ebbe l’impulso di abbandonare Giosuè, gli durò il tempo di sentirsi un infame. Mise in moto collegando i fili sotto al volante e partì oltre i 100 chilometri orari.
– Me l’hanno messo in culo, Giosuè. Tutto in culo! La pagheranno…
Sfrecciavano su strade secondarie circondate da aperta campagna nera. In mezz’ora raggiunsero la strada del cimitero. Fabio doveva liberarsi della macchina rubata, ma non gli era chiaro come. Sentiva che stava sbagliando tutto. Varcò il parcheggio ed emise un grido feroce. A quell’ora niente parcheggiatori abusivi fumatori di crack. Notò una sagoma: la vecchia Panda del barbiere tappezzata di giornali. La notò pure Giosuè.
– Papà!
– No, Giosuè. No, – disse Fabio. Poi pensò: “È l’occasione per svoltare ’sta serata.”
Scese dalla macchina rubata, si avvicinò alla portiera della Panda e l’aprì. Il barbiere dormiva, sulle sue gambe c’era la testa di Lorenzo, dormiva pure lui e aveva il cazzo moscio del barbiere poggiato sulla bocca. Quattordici anni, quasi quindici, non di più. Fabio cacciò il coltello e colpì il barbiere. Due, tre, quattro volte al petto.
Lorenzo saltò dal sonno e si accucciò sull’altro sedile: – AAAHHH!!! Lo tirò per i capelli e gli tagliò la gola. Il sangue sgorgava dappertutto. Svelto frugava nelle tasche dei due, trovò 40 euro a Lorenzo, 20 al barbiere e si buttò nella macchina rubata e partì. Guidava senza sapere dove andare.
Sentiva che stava sbagliando tutto.
Giosuè si dondolava avanti e in indietro, piangeva.
– Sta’ zitto!
– Aaaahhh!
– Zitto! Zitto! Zitto!
Mentre scappava ebbe come l’illusione che non fosse successo davvero. Un inganno del cervello che gli evaporò nel momento in cui Giosuè cominciò a irrigidirsi, a tremare, ad avere la bava alla bocca.
– Che hai? Oh! Che cazzo hai? – Giosuè guardava nel buio occhi sbarrati.
Fabio si spinse a scrutare quello sguardo. Perse il controllo della macchina e andò a schiantarsi nel camion della nettezza urbana.
L’airbag al volante si aprì.
Dal lato passeggero no.
Quando alzò la faccia dall’airbag ritrovò Giosuè con mezzo busto da fuori al parabrezza e la testa rotta da cui colava sangue. Il rumore dello schianto, a Fabio, gli riverberava nelle orecchie rendendo tutto estraneo attorno a lui. Provò a muoversi. Le gambe erano incastrate da qualche parte lì sotto al volante, non sentiva dolore, non ancora. C’era soltanto il rumore dello schianto. Vide un uomo correre verso la macchina rubata e dietro di lui, altri uomini. Udì le loro voci che gli giunsero opache attraverso il vetro dello sportello. Non diede importanza a quelle voci. Chiuse gli occhi e un dolore lo prese in tutto il corpo. Strinse i denti e chiamò Giosuè. Lui non poteva sentirlo. Era morto. Quattordici anni, quasi quindici, non di più.
Roz Catone è nato a Napoli nel 1987. Suoi racconti sono apparsi su Neutopia, Squadernauti, L’inquieto, Voce del Verbo e SPLIT.