June
Io passavo interi pomeriggi a giocare a tennis e mi sporcavo di terra rossa, i miei avevano investito su di me, sul tennis, c’erano in ballo tanti soldi. Maurizio, il mio istruttore, aveva sempre i pantaloncini candidi, tight, e mi accompagnava nei movimenti, a volte stando dietro di me, tenendomi il bacino mentre simulavo un rovescio. Credo che tra tutti i giocatori fossi il suo preferito; lo notavo dagli sguardi degli altri ragazzi con i quali mi allenavo, mentre ci cambiavamo o eravamo sotto la doccia a dire qualche battuta del cazzo o stronzate sulla sessualità di Maurizio o cose così, mi guardavano con occhi strani: a volte parevano pieni di odio, a volte sornioni, carichi di intrigo. Poi ovvio, la sera si usciva e si parlava di altro (fumo e pistole), si giocava a biliardo, smaltivamo lo stress del campo trangugiando latte su latte di Slalom o di 8.9, e poi ci facevamo in macchina con gli aghi e tutto quanto. La mattina una fitta alla natica mi svegliava e correvo in bagno a vomitare e June, se non dormiva, mi chiedeva ehi, come va, tutto ok?
June faceva la modella, i suoi genitori avevano investito in quello: il suo fisico, la sua pelle, le sue ossa. Le più grandi agenzie di moda di Milano fanno scouting tra i supermercati dell’Europa del nord, cercano ragazze robuste e alte, fanno fare loro una dieta di tre mesi (tutti i giorni sei ore di palestra, cinque minipasti a base di pollo, riso e banana) e le assumono. Almeno così era successo a lei. Parlavamo pochissimo ma scopavamo tanto, fino a farci male, io e June. Eravamo coperti da lividi, piaghe, sfoghi della pelle, tagli, ecco, tanti tagli, tagli rossi, piacevoli da sfregare, sulla pelle, quando si cicatrizzavano e diventavano crosta secca marroncina, tutta da grattare, da stuzzicare.
Io fumavo seduto sul pavimento in cucina e ogni tanto scoppiavo a piangere senza motivo (era l’effetto collaterale di un certo anabolizzante che dovevo assumere regolarmente ogni mattina a stomaco vuoto). Parlavamo poco, io e June, eravamo ossessionati dal frigidaire che tenevamo in bagno. Ci dava un senso di compostezza, di moralità. Ci vedevamo dentro il mondo e le nostre storie. Anche lei scoppiava a piangere spesso per via delle sostanze. I nostri genitori avevano investito su di noi, non possiamo fallire, le dissi una sera al cinema, mi fa male il metacarpo!, come cazzo faccio domani!, mi lamentavo.
A June gonfiarono le labbra in modo abnorme, davvero a dismisura cazzo, io assumevo compresse e facevo una visita ospedaliera ogni quattro giorni per un nuovo giro di iniezioni o cose del genere. Una notte eravamo fatti sul tetto di casa, era estate e saltavamo per raggiungere la luna e leccarla, perché ci eravamo fissati sul fatto che dovevamo scoprire di che cosa sapesse la luna, che sapore avesse, e io presi una storta e per due settimane non giocai. I miei si arrabbiarono, Maurizio anche, forse anche più dei miei genitori, forse anche più di Sly, il massaggiatore della squadra. Riversavo la mia angoscia su June mentre lei frignava fino al vomito perché aveva scoperto di avere il diabete. Io le dicevo no amore non piangere, fatti riempire la bocca di ansiolitici in compresse, anche dieci alla volta buttane giù, bastano due sorsi d’acqua, due, e starai meglio. Lei si dimenava sul tappeto, vestita da sera anche se era pomeriggio e una luce abbacinante rosa filtrava dalle persiane rosa e riempiva il salotto rosa arredato in stile minimalista, io ero dietro di lei con un cappellino New Era e una maglietta nera e dei pantaloni beige, sdruciti, larghi, portavo Vans consunte che usavo per fare skate e la ingozzavo di pastiglie.
Cominciai a tenere un diario, annotavo i risultati delle partite, descrivevo le facce che faceva Maurizio, i movimenti inaspettati della sua lingua quando beveva a canna bibite energizzanti o slurpava i resti di una minestra da un piatto di plastica in mensa. Con i miei parlavo soltanto al telefono, vedevo June con un fisico perfetto camminare sul bordo vasca. Maurizio diceva che non parlavo bene italiano o che comunque mi esprimevo in un italiano precario, ma non sarebbe stato un problema questo, perché in Europa, dopo le partite, le interviste con i giornalisti le avrei tenute in inglese.
E quindi? chiesi.
E quindi piantala di sforzarti con l’italiano, non leggere libri di grammatica, guarda dei documentari in inglese, si comincia così.
Passavano i mesi. Io e June eravamo abbastanza ricchi. Comprammo una villa imponente, sulla cima di una montagna, scopavamo di meno perché provavamo entrambi pulsioni suicide, nere, di morte. Vivevamo lo stesso incubo. Quando i nostri genitori ci chiamavano volevano sapere i calcoli, i numeri, le percentuali, i dati. C’erano in ballo davvero tanti soldi.
Quando il virus arrivò, un team di medici era a nostra completa disp. Disp sta per disposizione, mi piace abbreviare le parole, incasinarle un po’. Morivano tutti, in Italia. L’Italia è un paese che mi è sempre sembrato morire. L’Italia, questo paese in necrosi colliquativa. L’Italia che muore da sempre e sempre è morta e forse rinasce per poi morire, morire costantemente.
Il virus uccise quasi tutti. C’eravamo noi e altri ricchi. E il team di medici che seguiva noi e gli altri ricchi. Maurizio stava benone! Aveva comprato delle prostitute che teneva in casa, nelle Ande, ordinava il cibo dalla mansarda, via Internet, una squadra di omoni vestiti come astronauti glielo consegnava sigillato. Stessa cosa io e June e i registi con cui lei lavorava, i fotografi. L’italiano lo parlavo sempre meno, emettevo suoni più che altro, tanto il virus si stava mangiando fuori tutto, si era già mangiato tutto, tutti. Un suono che mi ricordo era auauaauaahauhahhaaaaahhhh e significava aiuto mi ha punto un’ape! Studiavo libri di meccanica in inglese. Le differenze tra i motori a turbina e quelli a pistoni mi intrigavano. Turbofan, Turbojet, amavo il suono di quelle parole. Dal telegiornale vedevi gli effetti del virus sulle persone, vedevi la morte e gli ospedali, persone che stavano per morire ricordavano persone già morte, veglie funebri, elicotteri di notte, la paura del terrorismo, morivano i giornalisti in studio. Dimenticavo l’italiano. Ogni tanto Maurizio mi telefonava per controllare il mo inglese. Me lo immaginavo in tuta di acrilico, mi immaginavo la sua lingua prendere direzioni improbabili.
Guardavamo documentari stravaccati sul divano, io e June, mi faceva tenerezza con quelle labbrone che non le piacevano. Una notte mi chiese di strappargliele via con le forbici.
Il mondo sta finendo e io odio le mie labbra, ti prego strappamele. E così presi le forbici. Guarda che ti imbratterai di sangue, le dissi, sì ma tanto ci devono ridipingere i muri, non è un problema. Ok prendo il coltello e faccio il primo squarcio squarccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccchhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhccccccccccccccccccccccccccccccccccccchhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Ci mutilammo insieme in una stanza rosa della casa. Mi ero fissato con la lingua, la mia lingua, non mi piaceva e June me la tagliò. Non potevo sapere che sarebbe uscito fuori tutto quel sangue. Mentre morivamo dissanguati, insieme, pensavo agli alberi a motore, alla biella, al cilindro, all’ogiva, ai motori a doppio flusso, alle pale delle eliche, sporche di fango, agli ultimi servizi fotografici di June, alle fusoliere in fiamme, alla girante, ai correntini, ai bulloni, al mio rovescio, alle partite che avevo vinto.
Ci siamo lasciati morire addosso, lentamente. Oppure no, abbiamo continuato a vivere in modo banale, senza slanci o chissà cosa. Quelle labbra se le doveva tenere, altrimenti i suoi genitori l’avrebbero uccisa. Telefonavano e chiedevano i calcoli, i numeri, le percentuali, i dati. C’erano in ballo davvero tanti soldi, tutto questo non ha nessun senso. Oppure sì, e risale a uno sguardo languido, intimo, eterno, mi ci immergo mentre assumo compresse, sostanze, droghe, mentre simulo i rovesci, mentre corro, faccio flessioni, contemplo l’universo.
Paolo Gamerro è nato nel 1983 . Ha scritto “Sbiadire” (Augh! 2017) e “Il libro nero dei brutti” (Scatole Parlanti 2019). Il suo racconto “Esalgico” è stato pubblicato nel “Vocabolario minimo delle parole inventate” (Wojtek 2019). Collabora con Verde rivista.
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