La notte termica
Siamo a ballare.
Io, il mio migliore amico Fabio e tre suoi amici diventati anche miei.
(Sono da sempre l’amica acquisita.)
Due ragazze che completano il gruppo sono andate in qualche altro locale, meglio così. Valentina mi sta sul cazzo: mi isola dai discorsi perché sono l’intrusa, dice a Fabio di lasciarmi perdere. Stronza.
Davide e Cristian sono al bancone che aspettano il drink; io e gli altri siamo poco distanti, facciamo gli stupidi: mi metto alle spalle delle tipe e le imito ballare, il gioco è: se si girano stampo loro un bacio in bocca. Mi annoio in fretta, sono carica, voglio altri stimoli. Alessio ci prova con qualche figa, i ragazzi mi si approcciano, io flirto, Fabio mi osserva.
Tre sere su sette sono a letto con qualcuno.
Non mi interessa niente, non provo niente.
Totale cloroformio emotivo. Come se la mia vita fosse fatta di tessuto cicatriziale, che lo sporco mica attecchisce: assenza totale dei normali processi emozionali.
(Ma la notte, nel mio letto prima di dormire, percepisco la morte termica nello sterno.)
Non mi frega un cazzo di nessuno.
Quello di fronte a me in metropolitana – e la scritta sulla piastrella del cesso “ora mi buco” –, le fedi all’anulare o quelle che cadono dalle tasche dei pantaloni con il tintinnio dell’onta – coglioni –, quelli che ingoiano un pugno di pasticche: «senza te non mi interessa vivere», quelli giovani, troppo giovani – illegalmente giovani – quelli che in macchina sbattono il culo in faccia alla fotografia del figlio, quelli che dietro al cassonetto dell’immondizia: «facciamo in fretta che ho la tipa nel locale», i fratelli di, quelli a una settimana dal matrimonio, quelli che il matrimonio lo celebrano. Quelli che, quelli che.
Non mi frega un cazzo di nessuno.
(Poi la notte, sola nel mio letto, percepisco la morte termica nello sterno.)
Non mi frega un cazzo di niente.
Non dei luoghi sacri, dei luoghi luridi, delle ville con la spiaggetta d’erba ai piedi del lago, degli hotel di lusso – che tanto pagano loro –, dei capannoni bruciati, delle barche abbandonate con le schegge di legno consumato che si ficcano nella schiena, dell’alta quota, del mattatoio, delle dark room, delle gabbie. Del mio corpo in comodato d’uso gratuito: non mi frega un cazzo di niente.
Consumo la mia pelle per un pugno di conferme, per essere qualcuno.
(Soltanto la notte, nel mio letto prima di dormire, percepisco la morte termica nello sterno.)
C’è gente nel locale, tanta. Belle vibrazioni, sono lucida, presa bene, se voglio qualcuno me lo prendo: ho il potere di scegliere.
Guarda come ti luma quello sfigato!, mi dice Fabio.
Mi giro. Il tipo mi fissa e non mi toglie gli occhi di dosso.
È grasso, tanto grasso. Il culo deborda dallo sgabello. È al bancone.
Mani sulle ginocchia, degli occhiali squadrati.
È sbobba per maiali, penso.
Ce l’avrà già in tiro, ride Davide.
Rido anche io, non smetto di guardarlo: i capelli appiccicati alla testa, le guance gonfie, dei jeans chiari.
Ha la pelle umida o unta di sebo. Mi ripugna. Mi monta l’adrenalina.
Quello sarà già venuto nelle mutande, dice Cristian.
Non smetto di guardarlo.
Figa, se ci stai quello si è fatto la scopata della vita!
Mi provoca Davide, mi sfida. La chiamano l’ora del bollettino quando snocciolo le mie esperienze. Conoscono il mio cinismo attraverso il sesso che racconto. Il disinteresse, la spietatezza.
Mi pungola Cristian e rincara la dose: anche lei ha dei limiti, non ce la farebbe mai! Quello non si riesce neanche a vedere il cazzo!
Non smetto di guardarlo.
Tanto più mi disturba guardarlo, quanto più mi sento in diritto di fare di lui quello che voglio: i lardi non valgono un cazzo.
Io quello me lo scopo, dico agli amici.
Ridacchiano come iene, Alessio batte la mano sul petto a Davide: lo fa! lo fa!, ma Fabio non ride, si scola d’un fiato il bicchierino che ha in mano: dai Ila, cazzo fai? Cristian mi tira una pacca sul culo.
Io quello me lo scopo, ripeto.
Mi avvicino: mento alto, sguardo fisso.
(Il mio corpo troppo asciutto e spigoloso mi rende ancora più autorevole e caustica. Una puttana dom da manuale.)
Voglio svilirlo, degradarlo, renderlo inerme, voglio farlo piangere di umiliazione e illuderlo di un trionfo.
Lo sento liquefarsi come merda sotto la pioggia.
Eppure. Mi mette una mano sul fianco: cazzo fai, gli dico; cazzo vuoi, risponde.
Levo la sua mano, indietreggio col busto. Vacilla il labbro prima di: sei poco credibile.
La voglia di domarlo mi riempie come vomito in un secchio.
La sua macchina: pulita, ordinata.
Che lustro, gli dico piegando all’ingiù i lati della bocca. Cosa pensi, risponde, che noi ciccioni siamo la merda che mangiamo?
Sposto una ciocca dietro l’orecchio, la mano indugia.
Mi riprendo: non me ne fotte un cazzo di quello che pensa, di scambiarci due parole, di chi cazzo sia e di che problemi ha.
Non so nemmeno come si chiama. Non me ne fotte un cazzo.
Non gli metto la lingua in bocca, mi ripugna.
Lui mi si attacca al collo, cristiddio quant’è bagnato. Mi lecca la pelle, mi lascia addosso saliva, è nauseante.
Le mani sono grosse, provano a toccarmi il seno, gliele sposto, sono umide, umide e mollicce.
Mollicce come le frattaglie confezionate che mi divertivo a schiacciare da bambina.
Mi sposto, ho fretta di finire e voglia di umiliarlo.
(Aspettava il buio, veniva nel mio lettino che già dormivo e mi picchiava e urlava che ero stupida, una stupida ritardata.)
Raggiungo i sedili posteriori passando tra i due anteriori. Ho una gonnellina corta e da fuori potrebbero vedermi il perizoma. Guardatemi il culo, guardatelo, vi tira?, fatevi una sega.
Il ciccione scende e risale: è goffo, flaccido.
Gli slaccio il bottone dei pantaloni, ma faccio fatica con la cerniera, cristo tutto ‘sto grasso: fai tu, gli dico, annuisce con la testa, sposta indietro il culo, la tira giù.
Traffico con le mani, mi infilo dentro i jeans, il cotone umido degli slip, entro: non capisco se ho afferrato una bobina di trippa o il cazzo. Ommioddio, dice lui; ommioddio, scandisco io in una smorfia: tiratelo fuori.
Ansima già.
Questo qua è vergine, sicuro: chi si scoperebbe una latrina simile? Io sì, io me lo scopo, voglio depredarlo della sua verginità, insozzare per sempre la sua prima volta.
(Stupida! Stupida! Aspettava che mi girassi per lanciarmi sulla schiena quello che teneva in mano. Un giorno stava stirando.)
Dal tronchetto tacco 12 tiro fuori un preservativo, apro la confezione con i denti, sputo il pezzo rimastomi in bocca.
Dai, muoviti.
Lo prende, ha le dita paonazze che quasi esplodono, le unghie piccole: cos’è, il goldone è troppo grande per te?
Fa no no con la testa, l’altra mano la infila tra le gambe: oh ma ti muovi, non riesci a trovarlo? Obeso del cazzo.
Sì, scusa, aspetta, ho quasi fatto.
Gli monto a cavalcioni, sposto su un lato le mutandine, nemmeno me le levo.
I miei capelli lunghissimi gli coprono la faccia e penso a quanto me li stia imbrattando con la fronte sudicia: li laverò con lo shampoo che uso dopo la piscina, che toglie l’odore del cloro.
Mi aggrappo alle maniglie laterali alte: voglio toccarlo il meno possibile.
Fai schifo, gli dico mentre me lo scopo, fai schifo.
Lui è sudato, ansima e annuisce con la testa.
Lo sai che fai schifo, vero?
Sì, sì, dice lui.
Tu lo sai vero che non ti capiterà mai più una cosa del genere?
Sì, sì, aspetta vai piano.
Ma io non vado piano.
Non ti capiterà più perché sei disgustoso, cristo dio se fai schifo, dillo, dillo che sei disgustoso.
Non dice niente.
Quando cazzo ti capita più eh – alzo la voce – dimmelo, una figa come me che ti scopa così, quando cazzo ti ricapita?
No, mai, mai.
Allora dillo che sono figa! Dillo che sono una cazzo di figa!
(Guardavo i bambini in bici, non avevo una bici: buttati dal balcone, diceva, stupida, stupida bambina, buttati giù.)
Sì, sì, sei una gran figa.
È in affanno, respira corto, strizza gli occhi, la testa gli cade indietro, la voce si strozza.
E perché, perché non ti ricapita più una figa così? Dimmelo!
Ultimi colpi.
Faccio schifo, perché faccio schifo, sono grasso da fare schifo.
Ultimo grugnito.
Mi disarciono dal sacco di merda, apro la portiera, lo lascio lì, sudato nella sua macchina che odora di autolavaggio, il cazzo di fuori.
Prima di rientrare nel locale mi giro.
Il bidone mi sta guardando dal vetro, come i cani.
Sarà la prima cosa che domani racconterà agli amici. Non gli crederà nessuno.
Ilaria Spina è nata a Milano nel 1982.
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