La vera storia di Basilico
Eravamo vivi, sì, ma d’un verde pallido, acquoso. E quando un tizio barbuto si avvicinò al banco, cominciammo a gridare: prendi me, prendi me! – un tentativo vano, ché gli umani non le sentono mica le nostre voci. Cercai di stare dritto per sembrargli in gran forma, e quello sforzo bastò a provocarmi un lieve stiramento tra il fusto e la radice. Il barbuto toccò un paio di vasi alla mia sinistra e borbottò qualcosa.
Alla fine scelse me. Mi mise nel carrello con delicatezza, tra gli strepiti e le bestemmie degli altri. Mi tratterà bene? – pensai; perché è vero che il supermercato era un campo di prigionia illuminato al neon, ma chi poteva assicurarmi che essere adottato avrebbe migliorato la qualità della mia vita, che quello sarebbe stato soltanto un viaggio e non una deportazione?
Il padrone mi portò a casa nel sacchetto biodegradabile, schiacciato tra un pacco di tortiglioni rigati e un raccapricciante cespo-cadavere di lattuga. Le premesse, di certo, non erano incoraggianti. Mi sistemò sul balcone in mezzo a piante di altre etnie: un rosmarino trasandato, molto scuro e un po’ bohémien (“il mio hobby”, mi avrebbe spiegato più avanti, “è sballarmi espirando i gas di scarico delle auto qui sotto”), e due piante succulente, laconiche e sbuffanti, che scoreggiavano di continuo (“Troppa acqua, ci fa affogare!” dicevano per giustificarsi delle flatulenze). Eravamo la solita comunità inetta di nullafacenti. Tra vegetali è sempre così.
Mi godei il sole, ma la pacchia non durò che mezz’ora: il padrone tornò per strapparmi alcune foglie, e io ragliai come un asino, e più forte di me berciarono i miei compagni di balcone per lo spavento. Mentre il levante mi cullava nella luce, la cicatrizzazione andava di fretta: in qualche ora il dolore delle ferite lasciò spazio a un semplice prurito. Ciò nonostante, la prima giornata fu gradevole, a paragone con le successive. Guai peggiori arrivarono l’indomani, quando, senz’acqua dalla mattina precedente (un addetto del supermercato ci aveva servito da bere avvicinando le sue orride pustole al banco), il caldo del meriggio si trasformò da alleato in boia. Il padrone, al di là della porta finestra, monologava come un decerebrato e si dimenticava di me, che agonizzavo. Passarono altre ventiquattr’ore. Ho scarsa memoria di quei momenti di sofferenza, tanto ero privo di lucidità; ma dalle testimonianze dei miei compagni ho appreso che ero in uno stato di disidratazione totale. La secchezza mi teneva in piedi, non la vita: ero uno stecco moribondo, e le foglie pietrificate si sbriciolavano senza che me ne accorgessi. La fuga dal supermercato, la cosiddetta libertà, era davvero una nuova prigionia, fatale e di brevissima durata?
Mi fu dato da bere quando sembrava troppo tardi – acqua piena di arsenico che mi parve la più pura mai assaggiata! – e invece me la cavai. Gli episodi di inedia si ripeterono varie volte, finché il mio padrone, per paura di perdermi, non iniziò ad annaffiarmi con regolarità. Insieme alla maggior cura per la mia salute, però, aumentarono le torture: più germogliavo e più le mie foglie venivano stroncate. Si racconta che gli umani se ne nutrano…
A settembre, coi primi freschi, il padrone diminuì sapientemente le dosi d’acqua, mantenendomi verde e forte. Ottobre fu un mese piuttosto caldo – si sa che le temperature, oramai, superano la media –, ma cominciai a ingiallire come i capelli di certi uomini anziani che mi era capitato di vedere al supermercato. Che vuoi farci, entravo nella terza età! Assistei, in quel principio d’autunno, ad alcune torture sul rosmarino: il padrone, chissà perché, gli spezzava le ossa.
A novembre, decrepito, pensavo che la mia vita fosse al capolinea. In fondo non mi era andata male: ero grato al cielo e pronto a spirare. Ma fu proprio allora che cominciai a subire abusi del tutto inediti. Il padrone non voleva saperne di concedermi la pace eterna. Mi portò dentro casa, in cucina, dove il clima era più confortevole. Durante la prima quindicina del mese ripresi un po’ di colore, ma l’ingiallimento autunnale sembrava irreversibile. Non contento del mio pallore itterico, il padrone prese l’abitudine di inumidire la terra in cui radicavo col liquido opalescente che prosperava nelle sue gonadi. Mi sentivo vessato e sconvolto, ma il mio corpo rinverdiva e i ramoscelli s’irrobustivano come un basilico dopato di fertilizzanti. Le deiezioni spermatiche del pervertito mi facevano sopravvivere al freddo novembre; ma più il mio fisico recuperava energia e colore, e più desideravo morire. Il baccello del mostro e le sue perdite biancastre si stagliavano nei miei incubi.
I primi di dicembre fui trasferito in soggiorno, vicino a te, una stanga riverita col massimo zelo dal padrone. Ikea, dice la targhetta sul tuo vaso, ma non parli la mia lingua e non saprò mai se si tratta del tuo nome o del supermercato dove abitavi un tempo. Mi ostino a parlarti, pure se non mi capisci, perché ho bisogno che qualcuno ascolti la mia storia. Da quando sono qui, il padrone non si è più curato del mio stato di salute, forse perché rimango nascosto dalla tenda; in compenso, però, sono cessati anche gli abusi. Sono così prostrato dalle violenze subìte che la sofferenza fisica mi dà sollievo. Mentre il giallore ricopre di nuovo le mie membra fruste e alcuni rami giacciono sul terriccio, morti ma dolenti (sì, anche le piante soffrono della sindrome dell’arto fantasma), tu sei sempre più lussureggiante. Oggi dovrebbe essere il quindici dicembre. Strani festeggiamenti umani sono alle porte, e un abete-manichino (è plastica, quella?) pieno di lucette posa nel soggiorno. Il padrone ieri mi ha visto malmesso, ma si è limitato a strappare un paio delle mie foglie più colorite. Cos’è, una specie di eutanasia malriuscita? Poco conta, civettuola Ikea: di giorno in giorno l’ottundimento si impossessa dei miei sensi. Sono a un passo dal meritato oblio.
Paolo Ceccarini (Viterbo, 1983), laureato magistrale con lode in Comunicazione, cofondatore di Fabula Agenzia Letteraria, si occupa di editing e docenze di scrittura creativa. Ha pubblicato i romanzi Dentro Ambra (Alter Ego, 2013) e Sinola (Prospero editore, 2017) e ha scritto articoli e racconti per diversi blog letterari. Dirige il blog Quasicultura.