La verità del sangue
Mani – Pallide, i dorsi solcati da vene azzurrine come fiumi su una mappa d’altri tempi. Dita lunghe e snelle, da piccola le ritengono adatte alla tastiera del pianoforte. Lei rifiuta di prestarsi a quel supplizio. Nell’adolescenza un amico le trova perfette per la chitarra, anche se con più coraggio e sfrontatezza le direbbe per cosa vorrebbe le utilizzasse. Lei sorride con falsa timidezza, ringrazia e non raccoglie gli inviti, quelli espressi e quelli inespressi.
In casa nessuno suona, né lo ha fatto mai. Un’altra differenza non è quello che le serve.
Con la migliore amica prova sulle unghie smalti dai colori dipendenti dall’umore e dall’età, poi con gli anni e il punk nelle orecchie si fissano sul nero e nulla le smuove più. Le conficca barcollando nel braccio di lei alla prima ubriacatura insieme, uno dei tanti Mai più detti con convinzione che cala allo scemare dei dolori alla testa. Un giorno non tanto lontano da quello se le guarda smangiucchiate e graffiate, nervosa: col palmo umido per il caldo primaverile, che già lascia pregustare l’estate torrida che la farà boccheggiare, ha lasciato sulla guancia dell’amica-ora-non-più-tale segni rossi atti a marcare il territorio, quello del corpo di un ragazzo di cui entrambe si scorderanno a breve ma non abbastanza presto. Basterà loro il tempo, prima di perdersi di vista per sempre e sostituire l’odio con l’indifferenza, per sussurrare ad altre segreti svelati in confidenza, piccole confessioni che non porteranno grosse conseguenze, salvo un po’ di vergogna e qualche sospiro per l’amicizia che fu.
Naso – Piccolo e tondo, la punta che tende al cielo, spesso arrossato dall’allergia al polline che ai primi caldi la fa starnutire tanto da perdere il respiro. Il nonno da bambina finge di rubarglielo, ma fatica ad afferrarlo: la invidia per questo il fratellino dalla canappia svettante, simbolo maschile per eccellenza da generazioni, che a sentirselo stringere con malagrazia prova poca gioia e tanta voglia di crescere in fretta.
Il primo fidanzatino ama baciarglielo, lo fa per tutto il tempo di una storia tenera che dura meno di due settimane, dal giovedì in cui si danno appuntamento fuori dalla palestra ad un annacquato lunedì di marzo: la tenerezza finisce lì. Aspetta che i batuffoli bianchi vortichino in cielo per sfregarsi dal naso il ricordo umido delle sue labbra, mimetizzando il masochismo con il rossore allergico. Giura a sé stessa di non permettere mai più a nessuno di prometterle amore senza tener fede alla parola data.
Orecchie – Sottili e allungate, lobi inesistenti e punte da elfa. Avvinghia lì il primo orecchino di una lunga serie, in alto, un anello color rame che dovrà buttare per una brutta infezione. La madre dirà che se l’è meritata, lei soffocherà il dolore e le parole velenose che vorrebbe gridarle contro con altre urla, quelle della sua band preferita, soffrendo un poco ma deliziosamente nell’inserire gli auricolari nel padiglione.
Da piccola, in cerca di un astuccio per i suoi colori, ascolta in cartoleria la madre parlare con una donna dal trucco pesante, lontana conoscenza di tempi su cui non indagherà mai. La raggiungono parole banali e leggere e poi, improvviso, un silenzio di cui non capisce l’origine ma avverte palpabile l’imbarazzo. Nel letto la sera, quando i genitori già la credono addormentata, recriminazioni sibilate con cattiveria dalla madre si mischiano ai sussurri quieti del padre, un balletto di parole già messo in scena e pronto a perpetuarsi negli anni. Non intuisce il tema ma una parola, Adozione, le si inchioda nelle orecchie come gli spilli e gli anelli che vi conficcherà di lì in avanti.
Piedi – Piccoli e tozzi, si freddano come niente e un po’ per quello, un po’ per vergogna, li seppellisce d’inverno sotto due paia di calze termiche che non toglie mai se non sotto la doccia.
Si scartavetra mignoli e talloni camminando per ore sulla strada provinciale, indossando un paio di Dr. Martens appena comprate e non ancora sformate, nella prima di tante fughe che non porterà mai a termine ma che imparerà ad affrontare con calzature più adeguate.
Gambe – Lunghe e affusolate, muscolatura tonica che le consente una notevole elevazione. Se ne accorge l’insegnante di educazione fisica che la spinge verso il salto in alto, lei acconsente di malavoglia e si applica il giusto ma non di più. Quando arriva il periodo delle gare primaverili sbaraglia la concorrenza della scuola e se ne vanta: prima. Passa alle finali provinciali e per le altre non c’è storia: ancora prima. Alle finali regionali la incitano tutte le compagne, lei non delude: di nuovo prima. Alle finali nazionali arrivano anche i genitori e qualcosa si inceppa, salta la prima misura e poi si incaponisce su un obiettivo esagerato: arriva ultima. A cena diranno che non importa, ma fra i denti sussurreranno che è sempre la solita storia, e lei ormai sa ascoltarli senza farsi notare.
Un ragazzo conosciuto a un concerto si innamora delle sue ginocchia, lodando nei pochi momenti di contenuta intimità la rotondità delle rotule su cui concentra tutta l’attenzione, ben più che sulle allettanti e prevedibili cosce. Lei prende quel poco di autostima che le dona quella bizzarra forma di adorazione, poi si stanca e passa oltre prima che lui possa trovare nuove forme sferiche capaci di occultare il suo ascendente.
Ossa – Leggere e fragili. Il padre le dice che le ha cave come gli uccelli, quando la spinge sull’altalena e lei vola sempre più in alto, tanto leggera che potrebbe davvero spiccare il volo. Anni dopo vola sì, ma da un palco, senza mani pronte ad accoglierla ma solo il pavimento, duro e impietoso, che all’impatto le ricorda la sua fragilità sotto forma di dolore per un polso fratturato.
Arrivano in tanti a firmarle il gesso, compagne e compagni e il fidanzato del momento, un ragazzo sensibile con cui di notte gira le piazzole di sosta per recuperare bottiglie di birra abbandonate dai camionisti. Un altro ragazzo, con cui si è baciata due volte senza reciproco impegno, ha messo le sue iniziali e un cuore nero a marcare un territorio che non gli compete. Il fidanzato vede, lei arrossisce, ma non dicono niente. Finisce prima ancora che un dottore attesti la guarigione dell’osso, un addio dato a malincuore, e lui resterà solo a chiedersi come fa a non esserci spazio nelle cuccette dei tir per quel poco vetro vuoto.
Lingua – Lunga e appuntita. La mostra a tutti i parenti da piccola e si vanta del suo arrivare a toccarsi il naso, più ancora dell’abilità con cui riesce ad arricciarla. Arriva una compagna di scuola a spezzare quell’incantesimo, spiegandole con buonsenso e conoscenze inusuali per l’età che è solo un gene a permettere l’evoluzione, non certo un qualche tipo di dote. La odierà per quella rivelazione, meditando vendetta per quasi due anni, poi i genitori ritireranno la compagna per motivi di cui nessuno verrà a conoscenza e lei se la morderà, quella lingua snodata, temendo si siano avverate le sue maledizioni sussurrate.
La incrocia con vari ragazzi, spesso più grandi, nella sua ribellione adolescenziale alimentata dai contrasti con la madre e dall’unico che l’ha abbandonata in un momento di fragilità. Scorda i nomi in fretta, ma ricorda particolari inutili e spesso poco lusinghieri che faticherà ad associare persino ai volti:
– Quello col tatuaggio che recita Solo Dio mi può giudicare, che per cosa meriterebbe un parere dell’altissimo sulla sua vita non lo riesce proprio a capire, visto che non fa niente che lo faccia uscire dall’anonimato;
– Quello che dice che la voglia di vivere è direttamente proporzionale alla velocità con cui guidi, più vai lento e meno ne hai, che lei lascia perché quando la scarrozza ai concerti guida come un pazzo;
– Quello che bacia una volta sola, per compassione, dopo che le ha offerto due gin tonic a un baretto di periferia. Quando lo incontra di nuovo e lo scarica la segue tutta sera dicendole che così non si fa, noncurante del limite fra rabbia e amor proprio.
Capelli – Lunghi, lisci e neri, almeno prima di colorarli delle tinte che non prova sulle unghie. Quando la madre glieli intreccia in una coda suo fratello non riesce a frenare l’istinto di tirarla, il primo di molti screzi che li porteranno, più in là negli anni, a non rivolgersi la parola che per insulti buttati con noncuranza, un’usanza che li riavvicinerà trasformando i litigi in una consuetudine per cui non vale la pena prendersela.
Li maledice quando esagera con l’alcool, così fini da coprirle il viso e rischiare di finire assieme al vomito nella tazza del cesso. Quando è troppo fuori per ricordare cosa dice si mette a maledire anche chi glieli ha donati, tracciandone l’origine in paesi esotici e storpiando nomi di luoghi che non ha mai visto ma ha imparato a odiare da lontano.
Occhi – Lunghi e stretti, due biglie nere come pupille. A volte le si allagano di lacrime, altre li stringe fino a renderli due fessure ricolme d’odio, quando parlano al telegiornale di qualche disastro umanitario nei paesi del lontano oriente. Sua madre prende quelle reazioni per troppa sensibilità o pazzia, a seconda della giornata e dell’umore, suo padre non commenta e quando se ne accorge cambia canale, guardandola con due occhi tondi e tristi.
Ai concerti esagera col trucco rendendoli due fori neri e profondi, le guance che si rigano di linee ondeggianti quando il calore della calca scioglie l’ombretto. La tirano di peso fuori dal pogo, aggrappata ai capelli di un’altra ragazza, quando questa le dà dell’orsa all’ennesima spallata non richiesta: una volta calma si giustificherà, e tutti annuiranno con lei, dicendo che se non vuoi pogare allora cosa cazzo vai davanti a fare.
Sangue – Rosso e denso, niente di speciale. Quando ricoverano il nonno la sacca della trasfusione le fa impressione, il volto si sbianca e deve sedersi prima che le gambe cedano. Gli sguardi dei parenti preoccupati si fanno largo tra i pallini che le oscurano la vista, piedi e mani sono freddi e solo le orecchie sembrano ancora attive, portandogli la risata catarrosa dell’unico parente che sta peggio di lei e che presto non sentirà più.
Lotta invano con quella debolezza per anni, costretta a voltare gli occhi durante i prelievi quando sente venirsi meno e i capelli le si appiccicano alla fronte sudata. Non riesce a guardare lo schermo quando i punkabbestia la invitano alle loro serate horror, evita i tatuaggi per timore del liquido rosso che si mischia all’inchiostro al passaggio dell’ago. La sua vita violenta ammette i lividi ma non le ferite.
Il giorno in cui compie diciotto anni si presenta in un ambulatorio con tutto il suo coraggio e uno spazzolino rubato al padre. Ascolta il dottore spiegarle che quanto sta per fare non avrà validità giuridica, annuisce con diligenza mentre l’odore di disinfettante le colpisce le narici. Si morde la lingua mentre il dottore le preleva il sangue necessario per il test di paternità, resta fissa con lo sguardo sul suo braccio e finalmente regge il confronto.
Riconosce quel sangue. È uguale a quello di suo padre, di sua madre, di suo fratello. È uguale a quello di chiunque. Ora sa perfettamente chi è.
Stefano ha 42 anni. Fa l’operaio metalmeccanico e probabilmente lo farà fino alla pensione, ammesso che esista ancora fra vent’anni. Vorrebbe campare scrivendo racconti, cosa che probabilmente farà anche dopo la pensione: alcuni sono apparsi su riviste, uno uscirà per WoM Edizioni, altri ne pubblica (suoi e non) sul blog Tremila Battute, dedicato alla musica indipendente e alla letteratura.