Lampadine
Chiusa sola in casa non sapeva più come riempire il tempo, colmare il vuoto che costantemente provava. Nella situazione attuale, grazie tante, era ancora più difficile del solito.
Il pozzo oscuro che aveva al posto dello stomaco si era espanso come un nuovo universo che avrebbe trangugiato qualunque cosa, compresa lei. Inghiottita dall’interno.
Sapeva come tenere a bada quella sensazione, tener distratte le fauci della bestia, intima, nascosta, sempre in agguato, sua compagna da anni. Per non finire in quella discarica, cimitero di ambizioni morte sul nascere, di sentimenti mai esplorati fino in fondo, doveva darle qualcosa, la legge del contrappasso.
Aveva bisogno di chiamare qualcuno, un incontro fugace sarebbe bastato per mitigare quel vuoto, per non sentirlo più graffiarla da dentro. Ma non poteva.
Il sesso era diventato il suo più stretto alleato, capace di nascondere il disagio interiore. Sapeva benissimo che non sarebbe stata la soluzione definitiva, ma tanto bastava per riprendersi un po’. Era sulla trentina, ciò significava che il sesso l’aveva accompagnata per metà della sua vita. E continuava a farlo. La relazione più lunga mai avuta.
La ricerca, in quel momento, era diventata disperata, nessuno che avesse già incontrato in passato poteva presentarsi a casa sua. Solo in quei maledetti mesi di chiusura totale si era riscoperta a desiderare un partner fisso, un convivente pronto a tirarla per i capelli da quel baratro ogni volta che ne aveva bisogno. Quel pensiero la rese ancora più rabbiosa.
Ora come ora, avrebbe addirittura supplicato il primo stronzo di incontrarsi da lei verso le due di notte; nell’oscurità più totale, voleva sfidare l’amante della serata, mi riconosci? sono tutt’uno con il buio che mi porto dentro e stasera ti avvolgerà, e tu non te ne accorgerai, sarai ignaro di tutto, non saprai che io sono quella oscurità. Ogni volta era così.
A chiunque chiedeva di portare una scatola di praline al cioccolato; rendeva ancora più assurda tutta la situazione.
Una volta tra le mani la preziosa scatola, i convenevoli erano a malapena rispettati. Come una tigre, si fiondava sulla sua preda, i suoi occhi si infiammavano, fari accecanti, solo nel momento in cui qualcosa la penetrava; aveva avuto partner di entrambi i sessi ed era stato sempre così. Né baci né carezze l’avevano mai alleggerita da quel dolore incessante; né una parola né un gesto affettuoso erano stati di conforto. Nel momento in cui quel vuoto veniva riempito fisicamente i suoi occhi si illuminavano; l’estasi tanto bramata. E in maniera altrettanto fulminea si spegnevano. L’attimo salvifico.
Nella situazione in cui si trovava, quel bisogno cresceva giorno dopo giorno, più cercava di non dargli peso e più le riempiva le viscere, un enorme mattone pronto a trascinarla nell’abisso più profondo. Si stese a terra, sul pavimento della cucina, freddo, con una patina di sporcizia sulla superficie. Non lo puliva da giorni, perché la sua mente era occupata da un unico incessante pensiero.
Stava fissando l’anta della dispensa, e si ricordò di quando da piccola vedeva la madre passare interi pomeriggi sul divano tra biscotti, frutta secca, caramelle. Ingurgitava di tutto. Non ingrassava mai, si chiedeva sempre il perché, le diceva che il nervosismo che accumulava sul lavoro da un lato le provocava quella fame isterica, dall’altro le faceva consumare istantaneamente tutto ciò che metteva in bocca.
Adesso si stava domandando se potesse funzionare anche per lei: riempirsi di cibo per colmare quell’assenza che aumentava incessantemente. Mentalmente ripassò tutti gli scaffali della cucina, da qualche parte avrebbe potuto trovare delle patatine. Si alzò strascinando le ciabatte, il pantalone le cadeva a ogni passo e non aveva la minima voglia di aggiustarlo, nessuno era lì per guardarla, nessuno ci sarebbe mai stato. Arrivò al mobile, si specchiò nell’anta a vetro, durò solo un istante, odiava farlo, si sarebbe cavata gli occhi per non ritrovarsi a fissare la sua immagine riflessa da qualche parte. Aprì lo sportello e dietro il barattolo di fagioli secchi c’era pronta ad attenderla quella busta formato famiglia di patatine; erano di quelle dal gusto improbabile, ma meglio di niente. Distrattamente richiuse l’anta, che si fermò a metà della sua traiettoria, e si diresse verso il piccolo divano; aprì il pacchetto e dopo aver assaggiato un paio di quelle sfoglie croccanti, iniziò a mandarle giù voracemente, le masticava per qualche secondo e poi subito giù. Iniziò a sentire dolore per via di quelle briciole che le raspavano la gola; allo stesso tempo però, più andava avanti e più inghiottire quella roba la faceva eccitare: tutto quel cibo avrebbe ricolmato il suo pozzo interiore. A un tratto lasciò cadere le patatine a terra, corse in camera da letto e nell’ultimo cassetto del comodino prese tre di quelle scatole di praline che nel corso del tempo aveva collezionato. Come aveva fatto a dimenticarsene, erano state sempre lì pronte a salvarla. Iniziò con cura a togliere la sottile pellicola di plastica trasparente; poi in un momento cambiò espressione, si stava trasformando nella tigre degli amplessi sessuali. Scartò con foga la seconda e la terza scatola e prese le prime due praline. Le mise in bocca, ne volle assaporare per un momento il gusto, sentire sulla lingua la cioccolata che si scioglieva e che poi le colava per la gola e per gli angoli della bocca. Masticò e mandò giù in un attimo quella poltiglia. Non seppe resistere e ne prese altre due, non riusciva più a trattenersi, un’altra ancora in bocca, quelle perfette lisce palline racchiudevano la sua salvezza. Gli occhi le si illuminavano ogni volta che mandava giù un boccone, uno dopo l’altro. Ne prese altre e altre ancora, aveva due lampadine nelle orbite, pupille luccicanti e spalancate, dilatate all’inverosimile. Aveva accantonato il vuoto che da una vita si portava dentro, perché non era più dentro di lei. Il vuoto, quello vero, era dappertutto adesso, la cullava, la accarezzava, la riempiva di desiderio, che scendeva liquido per la gola. Altre praline. Se solo lo avesse saputo prima. Quella era la liberazione che aspettava da una vita; prendimi; l’aveva attesa, cercata, a un certo punto della sua esistenza se ne era quasi dimenticata, come se avesse dovuto convivere per sempre con quell’inferno nero che si portava appresso. Prendimi. Ora che l’aveva finalmente trovata, non se la lasciò scappare, la sua liberazione. Spalancò gli occhi, un rantolo sommesso ruppe il silenzio che si era creato. Accadde in un attimo; se qualcuno fosse stato con lei in quel momento avrebbe notato le lampadine al posto degli occhi spegnersi lentamente, le pupille restringersi piano piano. Quel fantomatico spettatore a un certo punto non avrebbe visto più alcun movimento. Anche il sibilo del suo respiro si era interrotto. Tutto era diventato oscurità.
Federica Brunelli, nata nel 1990 nella provincia di Caserta, lavora come correttore di bozze da freelancer. Scrive per orientarsi tra le sue tante sfaccettature e contraddizioni e le piacerebbe farlo in una baita di montagna vista lago, un po’ distaccata dal mondo.