Petlog (5 racconti)
Io e mio fratello abbiamo rispettivamente diciotto e ventidue anni. Lavoriamo in un mattatoio. Fuori c’è la guerra. Dico fuori perché nel mattatoio io e mio fratello ci viviamo proprio; non usciamo mai, se non per vedere i tori che montano le vacche e le vacche montate dai nostri superiori. Ci occupiamo di far fuori gli animali – non è un compito sgradevole; gli animali, lo sappiamo bene, non aspettano altro che essere fatti fuori per poter poi rinascere in una forma migliore e meno umiliante. Le leggi del cosmo sono strane e a noi tocca soltanto adeguarci. Ma torniamo un attimo alla guerra. Né io né mio fratello sappiamo come esattamente una guerra debba combattersi; sentiamo delle esplosioni lontane, ogni tanto, e qualche grido; e ogni tanto arriva qui un coso, un soldato lo chiamano i nostri superiori, che subito ci sbrighiamo ad abbattere e a macellare con le altre bestie. La carne dei soldati somiglia a quella dei vitelli; con però un retrogusto di terra – oppure di mare, per chi il mare lo conosce. Noi non lo conosciamo e perciò non sappiamo dire.
*
Ho amato follemente la Terra ed è stato un dolore dovermene separare. Il problema è che avevo finito le frasi da dire e tutti ormai se n’erano accorti. Quindi mi hanno caricato sulla prima astronave disponibile, hanno inserito il pilota automatico e ora eccomi qui che vago in una galassia che forse è la mia o forse già no; e lo schermo davanti a me trasmette costantemente vecchi film pornografici della Color climax; roba vetusta appartenente alla Grande Era Genitale, un periodo per fortuna concluso e davvero nefasto – dove, tra le altre cose, era permesso accoppiarsi con i propri coetanei. Un orrore.
Sulla terra le frasi sono tutto. Ognuno di noi ne nasce con una certa quantità – che può essere per alcuni maggiore, per altri minore; dipende da tanti fattori – e poi con il tempo il bagaglio può ampliarsi. O ahimè, come nel mio caso, diminuire. Mettiamo che pronunciavo una media di ventinove frasi ben costruite al giorno. Un giorno mi sono svegliato e alla sera ne avevo pronunciate soltanto quindici. Nulla di preoccupante, sulle prime: può capitare, non siamo macchine. Ma i giorni successivi? I giorni successivi dodici frasi; poi magari sette; poi magari per un giorno non dicevo niente e mi segavo soltanto davanti a un catalogo di mobili Ikea. È stata proprio mia moglie a denunciarmi alle autorità competenti – le quali, del resto, in virtù della loro competenza, davvero poco hanno impiegato a esaminare il mio caso e a sbattermi fuori dal consorzio umano.
E ora, sullo schermo davanti a me, mentre supero una costellazione simile a quella del Sagittario, un uomo molto anziano sta leccando i genitali glabri di quella che immagino sia sua nipote. E c’è una data, in margine al video: 1972. Lampeggiante, rossa.
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A volte sogno di discoteche sperdute nell’hinterland milanese; le sogno sul finire degli anni ’90, in una notte che è infinita. Le sogno, chiaramente, perché sono troppo giovane per aver vissuto quei tempi e quelle notti. Ma mio fratello me le assicura favolose. Mio fratello è operaio in provincia di Varese e sta morendo di cancro.
«Cancro dove?» ha chiesto mio fratello al medico che gli consegnava il referto.
«Generico.»
«Cioè?»
«Cioè senza una particolare afflizione; lei ha il cancro e basta. Immagini che il suo organismo inizi, come dire, a mangiarsi da solo. Cancro generico. Poi, se vuole, possiamo chiamarlo in altri miliardi di modi.»
«Non ho mai sentito parlare di cancro generico,» ha mormorato mio fratello; ma poi è stato zitto, perché se lui è operaio e l’altro è medico un motivo ci sarà.
Quindi mio fratello appassisce, usiamo questo termine bruttino, giorno dopo giorno. E allora gli chiedo di raccontarmi il più possibile di quelle notti back in the nineties; perché so che presto morirà ed è vero che parlare coi morti si può (anche se la loro voce è flebile e sottile come quella di un daino slavo), ma certo non è facile come parlare coi vivi. E allora.
Adesso mio fratello non si capisce cosa dica. Parla di agnelli condotti al centro della discoteca e massacrati a colpi di motosega dalle cubiste. Ma mi sembra improbabile che il prezzo del biglietto, con tutti quegli agnelli da far fuori, fosse così basso da non impegnare nemmeno mezza giornata di lavoro giù al cantiere. Comunque questa sfrenata esibizione mi appassiona e chiedo ulteriori lumi; manto degli agnelli e in che modo gli occhi roteavano quando le loro teste cadevano a terra, espressione e dentatura delle cubiste, vestiti dei clienti, rumore della carne lacerata. Sfrrrrrrrrr, fa mio fratello mimando di agitare una sega elettrica, sfrrrrrrrr. È sdraiato sul letto, gli occhi chiusi, e sembra stia sognando; mi spruzza un po’ di saliva in faccia. Il suo entusiasmo è contagioso e per un momento – ma quale momento prezioso – siamo lì io e lui, nella sperduta discoteca dell’hinterland milanese; sul finire degli anni ’90, in una notte che è infinita.
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I rivoluzionari fecero irruzione nella sala e, dopo aver trucidato i maschi lì presenti, ordinarono alle donne di spogliarsi. In un angolo, tremante, la principessa di Lamballe rimaneva vestita. Sulle prime nessuno le badò molto, presi tutti dalle nudità delle altre dame. Fu il più giovane del gruppo, un ragazzotto delle campagne intorno Parigi, a segnalare agli altri la disobbedienza della principessa. Le saltarono addosso e le strapparono le vesti con la forza. Qualcuno le calpestò il viso, lasciando sulla cipria l’impronta dello stivale sporco. Grande fu la sorpresa dei rivoluzionari nello scoprire che, sotto l’ampia crinolina, la principessa di Lamballe era a tutti gli effetti un maschio genetico.
«E questo?» domandò uno dei rivoluzionari solleticando con la punta del coltello il pene minuscolo della principessa.
La principessa rimaneva in silenzio; gli occhi fissi a terra.
«Dov’è il seno?» gridò un altro del gruppo. E ripeté più volte la domanda, tastando inutilmente il petto dell’efebo; stringendo la poca carne.
Il più anziano dei rivoluzionari, che era stato in gioventù l’assistente di un medico, propose di amputare il sesso della principessa per poi, a furia di coltello, praticarle un orifizio che arrivasse fino all’ano. «Un buco talmente grande da accoglierci tutti insieme.»
A sentire questo, la principessa svenne.
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Mentre seppelliva il cadavere di sua moglie nel bosco, l’uomo sentì una voce femminile dietro di sé bisbigliargli qualcosa sugli universi vuoti, sulle colpe che ritornano dalle vite precedenti, sulle riproduzioni di statue greche nelle case dei proprietari terrieri e le ombre che lungo il Mississippi i vagabondi feriti proiettano sulle mangrovie.
L’uomo si girò e non vide nessuno. Non ci fece troppo caso e riprese il lavoro. L’uomo non aveva una pala, avendola rotta a furia di colpi sulla schiena della moglie defunta; perciò scavava con le mani; e le mani erano tutte un dolore. E presto non ce la fece più. Decise che quel luogo era abbastanza isolato da lasciare il cadavere insepolto (nessuno passava per quelle terre dai tempi dell’ultima guerra di secessione) e se ne ritornò a casa. La voce femminile lo seguì per tutta la strada del ritorno e l’uomo davvero non riusciva a venire a capo di quell’enigma. Uno spirito di donna? Ma quale donna, pensava l’uomo, se l’unica donna da lui conosciuta in vita era stata la moglie e cioè suo cugino Ernest con una bionda parrucca di paglia? Non era nemmeno certo che quella fosse una voce di donna. Ma sicuro non somigliava alla sua né a quella di Ernest.
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Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Ha pubblicato tre libri di poesia e una raccolta di prose, “Sonno giapponese”. Sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, tra cui greco, spagnolo e portoghese; nel 2020 una sua antologia poetica è stata pubblicata in Russia presso l’editore Free Poetry.
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