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Carcassa

(Racconto tratto da New York Tyrant, magazine di Tyrant Books. Traduzione dall’inglese di Eva Angelini.)


Uccisi un gatto, prima di partire. Avrei dovuto tornare velocemente a casa, togliermi i vestiti da lavoro e afferrare il mio borsone. Il sole era in una posizione scomoda, mi entrava negli occhi attraverso il parabrezza sporco e non vidi il gatto finché non fu troppo tardi.
Il gatto non sembrava ridotto troppo male, steso lì come se potesse star solo dormendo – a parte per il suo occhi destro che si stava riempiendo di sangue. Ansimava in modo irregolare e rumoroso. Mi avvicinai a lui. Non alzò la testa né mi guardò.
Una Jeep mi passò accanto mentre ero ferma lì, dentro c’erano due ragazze poco più giovani di me. Probabilmente frequentavano il mio vecchio liceo, quello da cui mi ero ritirata un anno prima, e avevano lunghi capelli biondi e un’abbronzatura leggera, con dei bikini annodati dietro il collo. La Jeep era nuova di zecca, bianco scintillante e con adesivi di margherite rosa e gialle sul portabagagli.
Accostarono. «Cazzo,» dissi. Si sarebbero avvicinate e mi avrebbero fatto sentire in colpa per il gatto.
OH MIO DIO, urlò una delle ragazze.
OH MIO DIO, urlò l’altra.
Per un secondo, pensai che il gatto fosse loro. Quella in pantaloncini cercò un collare attorno al suo collo. Il gatto stava ancora ansimando irregolarmente.
COS’HAI FATTO????? mi urlò quella con la minigonna. Era leggermente meno attraente dell’altra, con un naso più grosso, un mento più piccolo.
«Si è buttato davanti alla macchina,» dissi. Provai a suonare triste. Mi sentivo male, con questa sensazione di vuoto allo stomaco e le mani tremanti. «Avevo il sole negli occhi e non riuscivo a vedere un cazzo.» Stavo per dire loro che non stavo correndo o cose del genere e che non era colpa mia, ma era chiaro che a loro non importava.
OH MIO DIO, urlò ancora una di loro.
«Dobbiamo portarlo dal veterinario,» disse l’altra.
Erano passate le cinque e il veterinario all’angolo era chiuso. Il sangue stava colando dall’occhio del gatto sul pavimento.
Le ragazze sollevarono il gatto – una per le gambe, l’altra per la testa – come un oggetto pesante e sacro. Lo caricarono nel retro della Jeep, non sembrando per niente preoccupate dalla possibilità di macchiarsi i loro vestiti carini con il suo sangue spacciato. Ripartirono senza dirmi niente. Mi sentii una merda.
C’era del sangue sulla strada, giusto un po’, una macchiolina della dimensione di un fagiolo di Lima. Fui tentata di toccarla ma non volevo farlo quindi risalii in macchina. Non c’era altro da fare. Guidai fino a casa. Mi cambiai. Presi il treno.
Avevo una fiaschetta con della vodka dozzinale e il mio portapillole d’argento era pieno. Non riuscivo a smettere di pensare a quell’occhio insanguinato. Chiudevo gli occhi ed era ancora lì, rosso e umido. Comprai una bottiglia di succo d’arancia al chiosco degli snack, bevvi la vodka, inghiottii due pillole.
Il sole al tramonto scivolava sull’oceano, un brillante globo arancione dietro le mie palpebre. Mi addormentai.



Lo scopo del viaggio era divertirsi. Andavamo sempre lì, a Santa Barbara. Io, da San Diego, dov’eravamo cresciute tutte. Blair e Cara dal loro college in Santa Cruz. Krista e Abby vivevano in un monolocale lì.
A San Diego lavoravo in un’enoteca e avevo preso lezioni online al college statale. Bevevo troppo, da sola, e dormivo un sacco. Qualche mattina riuscivo a stento ad alzarmi dal letto, con la sensazione che ci fosse come una bestia appollaiata sul mio petto. A Santa Barbara bevevo di più ma non da sola e dormivo a malapena. Non l’avrei saputo se non anni dopo, ma quello era un brutto periodo anche per loro. Blair era stata violentata al college e Cara rischiava di essere espulsa. Il padre di Abby era morto da poco e la famiglia mormone di Krista aveva tagliato i rapporti con lei.
Era come se giocassimo a un gioco ogni fine settimana. Cercavamo di superarci l’un l’altra, e poi di superare noi stesse rispetto al fine settimana precedente. Ci fu quella volta in cui andammo a una festa porno – fecero un servizio su di noi e vedemmo le nostre stupide facce ubriache alla TV. E poi quella volta in cui indossavamo biancheria bagnata in una piscina per bambini reggendo un cartello dove chiedevamo soldi per i nostri aborti. Tra una cosa e l’altra, la metà di noi aveva passato una notte in galera, e in maniera meno seria di quanto possa sembrare. Gli sbirri ti portavano via in un camioncino, ti davano un panino da mangiare e ti lasciavano andare la mattina seguente.
Poi ci fu quel gioco che facemmo su Del Playa, la strada principale che ogni fine settimana era affollata di migliaia di studenti, migliaia di sconosciuti che saltavano da una festa all’altra. Guadagnavamo un punto per ogni pene che riuscivamo ad afferrare mentre camminavamo. Le reazioni variavano. Qualche volta i ragazzi gridavano e ci chiedevano il numero di telefono. Ma la maggior parte di loro – lo facevamo per le loro facce. Tirate, rosse d’imbarazzo, sorprese. Spaventate.
Non dissi nulla riguardo al gatto quando arrivai lì. Ci stavo ancora pensando. Volevo andasse via. Tracannammo birre e cercai di spingerlo via dal mio cervello. Dopo qualche birra, il pensiero divenne più morbido. Feci finta che fosse qualcosa che avevo visto in un film. Galleggiò via.
Le ragazze volevano andare alla festa che si teneva alla grande casa accanto. Io volevo fare qualsiasi altra cosa. Non mi andavano a genio quei ragazzi perché erano stupidi e noiosi. Ma acconsentii lo stesso, senza neanche lamentarmi. Quando ci avvicinammo, non era ancora arrivato nessuno e i ragazzi stavano giocando a biliardo. Ci offrirono bicchieri di punch, che accettammo, e poi ci ignorarono. Ci sedemmo sul divano e inventammo un nuovo gioco.
Ci vennero in mente l’idea, il nome, le regole. Una “consorernita”, una confraternita greca dalle pari opportunità, Delta Iota Kappa. Se i ragazzi volevano unirsi, dovevano mostrarci il loro uccello. Tirai fuori il quaderno che tenevo nella borsa e ci appuntammo tutto.
Solo uno dei ragazzi presenti in casa era carino. Si chiamava Remy. Era stupido e mal vestito ma sembrava uno di quei tipi nelle pubblicità della biancheria intima, capelli biondi e tutto scolpito. Brillanti occhi blu. Gli facemmo cenno di avvicinarsi. Gli dicemmo che avevamo bisogno di un ragazzo carino nella nostra consorernita. «Basta che ci mostri l’uccello,» disse Cara.
«Ci vorrà solo un secondo,» aggiunse Blair.
«Solo una sbirciata,» feci io.
«Ti diamo una toppa,» disse Abby. «Cucila sulla tua giacca.»
Remy rise. Sembrava a disagio, che era proprio il punto. «Siete pazze,» disse e si allontanò. Verso mezzanotte eravamo sedute sul patio. Avevo comprato questa bottiglia di succo dal negozio perché trovavo che avesse un nome strano. Beefamato. Era succo di pomodoro con brodo di manzo. Stavamo cercando di venderla a questo ragazzo. Era più giovane, aveva solo diciassette anni, ed era venuto a trovare il fratello per il fine settimana. Gli dicemmo che era mischiata alla vodka.
«Fai un sorso,» dissi. «Vedi che è davvero forte.»
Fece un sorso. Brodo di manzo.
«Non è buono?» Gli chiese Krista.
«Oh cavolo,» feci. «Mi ha sballato di brutto lo scorso fine settimana.»
«Non sento niente,» disse il ragazzo. «Questa merda è disgustosa.»
«È il succo di pomodoro,» disse Cara. «Non hai mai bevuto un bloody mary? Non riesci nemmeno a sentire la vodka.»
«Oh, certo.» No, non aveva mai preso un bloody mary. «Ok,» fece. «Quant’è?»
«Venti dollari,» dissi. «Ne ho pagati quaranta.»
«Perché non la volete voi?” domandò.
«Il fine settimana scorso è stato troppo,» risposi.
«Oh mio dio, quanto ci siamo sballate,» aggiunse Abby.
«Solo il pensiero mi fa venire voglia di vomitare,» disse Blair.
Ci diede i venti dollari. Me li misi in tasca e saltammo oltre il muretto del patio. Quando raggiungemmo il vicolo iniziammo a ridere senza riuscire a fermarci. Che idiota.
Al negozio, optammo per il whiskey. Mi piaceva il sapore ma avevo dimenticato quanto mi facesse sempre diventare cattiva. Ce lo scolammo direttamente, come cicchetti, lì nel vicolo. Sentivo quella sensazione di peso nei miei piedi ma il resto del mio corpo sembrava leggero e piacevole. Il gatto era ormai lontano e potevo fare qualunque cosa.
La bottiglia era appena stata svuotata quando Remy si avvicinò. Disse che stava comprando altra carne per la festa. Il vicolo collegava il complesso di appartamenti all’entrata posteriore del negozio. Noi ci eravamo messe nella parte stretta, dove c’era una recinzione di legno e spazio per una sola persona. C’era un buco, nella recinzione, qualche tavola di legno rimossa che poi era il modo con cui si arrivava al negozio. Krista si piazzò di fronte al buco. Io ero vicina alla recinzione e bloccavo la luce che veniva dal patio, gettando ogni cosa nell’ombra tranne la bella faccia di Remy.
«Tu unirai alla nostra consorernita,» disse Blair.
«Devi,» aggiunse Krista.
«Ah ah,» fece Remy. Qualcosa gli attraversò la faccia alla velocità di un ratto. La paura.
Lo spinsi forte contro la recinzione, ogni mano sulle rispettive spalle, stringendo con forza. Sembrò troppo sorpreso per muoversi.
«Prendilo,» disse Cara.
Krista gli afferrò la cintura e tirò forte, slacciandola. Io continuavo a tenerlo fermo contro il muro. I suoi pantaloni arrivarono alle caviglie.
«Oh ehi, ehi,» fece. Cercò di chinarsi per alzarsi i pantaloni, ma gli tenevo le spalle e lui non fece troppa resistenza.
Blair infilò la mano nel buco dei suoi boxer e trovò il suo cazzo.
«È duro,» disse. Ridemmo. Non lo era ma ci stava arrivando. Lei glielo tirò un po’, in modo rude. Ritrassi una mano dalla sua spalla per carezzargli le palle.
Abby si sputò nella mano. Iniziò a fargli una sega, scivolando per la lunghezza fino alla punta. Lui sembrava ancora un po’ spaventato ma stava respirando sempre più pesantemente. Blair lo baciò sul collo. Io gli lasciai le spalle e presi il posto di Abby. Cara gli afferrò i polsi e glieli tenne insieme. A quel punto, lui stava emettendo piccoli gemiti, respiri irregolari, come il gatto.
Blair smise di baciarlo e si mise in ginocchio.
«Vieni sulle mie tette,» disse. Indossava una t-shirt così sottile da essere praticamente impossibile. «Oh sì, piccolo,» fece, come una ragazza in un porno. «Vienimi sulle tette. Guarda quel cazzo. È così duro. Sei così sexy, piccolo.»
Il respiro di Remy si fece sempre più pesante. Emise un suono simile a un lieve vagito, come un bambino. La sua faccia si aggrottò. Venne. Blair lo intercettò, finì nella sua mano. Si alzò e usò la maglietta di Remy per pulirsi. Poi rise. Ridemmo tutte. Remy fissò il pavimento.
«Cazzo, sei disgustoso,» disse Blair.
«Fai schifo,» feci.
«Non puoi unirti alla nostra consorernita,» concluse Krista.
Cara gli sputò davanti ai piedi, poi scappammo. Mi guardai indietro, per un secondo. Potevo vedere solo la sua ombra. Stava accovacciato in avanti, come se forse fosse caduto. Forse stava vomitando.





Juliet Escoria è l’autrice del romanzo “La squilibrata”, pubblicato da Pidgin Edizioni nell’ottobre 2020. Per maggiori informazioni, visita questa pagina: https://www.pidgin.it/prodotto/la-squilibrata/

Leggi questo racconto in lingua originale qui: http://magazine.nytyrant.com/roadkill-juliet-escoria/

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“Carcassa”, un racconto di Juliet Escoria tratto dal magazine New York Tyrant di Tyrant Books, tradotto da Pidgin Edizioni.