Fiori morti
Avvertivo la sua presenza. La immaginai a fissarmi, fiera di sé. Saccente. Fermai di colpo la macchina e spensi il motore. Non riuscivo più a ignorarla.
Strinsi le mani attorno al volante, fuori solo strada deserta e buio. Respirai a fondo e scesi dall’auto, consapevole del tempo che stavo perdendo. Aprii il bagagliaio con un colpo secco, pronta ad affrontarla. Sostenne il mio sguardo, inerme e sicura. Non si rendeva nemmeno conto di com’era ridotta, o forse lo sapeva e se ne fregava.
Una volta era stata un’innocente e lucida mazza da baseball, che si era battuta solo con i muri di casa, quando io mi annoiavo e provavo qualche tiro. Il suo legno ormai era rovinato dalle chiazze scure che iniziavano a rapprendersi. Sembrava davvero non importarle niente delle croste che la imbrattavano, a me invece iniziavano a dare prurito.
Girai intorno all’auto e raccattai una bottiglia d’acqua dai sedili posteriori, insieme al mio maglioncino di lana. Presi la mazza e ci feci scivolare sopra l’acqua, che immaginai cadere rossa sulle erbacce della banchina. La luce fioca che usciva dal cofano mi permetteva di vedere poco, e forse era un bene: già solo l’odore di ferro che risaliva dalle mani mi dava i conati. Appoggiai la bottiglia e, alzando gli occhi al cielo per non guardare, strofinai il maglione sulla mazza. Provai a ignorare il viscido che mi impastava le dita. Il ricordo iniziò a fuoriuscire dal buco nero che mi si era aperto nella mente. Avevo guidato per venti chilometri, me ne rendevo conto soltanto adesso. Riempii i polmoni d’aria e inghiottii l’ondata di vomito. Gettai la mazza e il maglione nel bagagliaio e li ricoprii con le cianfrusaglie che c’erano intorno, poi mi sciacquai le mani con l’acqua rimasta e gettai dentro anche la bottiglia.
Abbassai i finestrini, accesi una sigaretta e ripartii. L’aria fredda mi sferzava il viso, mentre quelle immagini saltavano fuori una a una. C’era Elena che sorrideva sull’uscio della porta, maligna. Poi ancora Elena, con il ghigno scomposto e la mandibola dislocata. Mi aveva guardata impaurita, con gli occhi sbarrati, prima che il colpo inferto sulla fronte glieli facesse strizzare e ricoprire di sangue. Le immagini apparivano a intermittenza, e a ogni flash vedevo la sua testa cambiare forma, mentre si sgretolava sul pavimento. Alla fine c’era solo un ammasso disordinato di sangue e capelli, e una sostanza grigiastra che scivolava sul bianco delle mattonelle. La sequenza si fermò. La strada davanti a me si stava trasformando in un lago scuro, e l’auto sembrava fluttuare nell’aria. Il ricordo iniziava a svanire.
Rimasero solo i miei fiori secchi. Ero stata via una settimana, non le avevo chiesto niente di impossibile. I nostri giardini erano divisi da un cancelletto, che cosa le sarebbe costato annaffiare anche i miei? Poteva essere stata via anche lei: invece no, i suoi gerani erano pieni di vita. L’aveva fatto di proposito. I miei erano più belli e lei ne era stata sempre gelosa. D’accordo, non eravamo mai state ottime vicine, ma com’era potuta arrivare a tanto?
Era stato normale piangere davanti a quell’orribile spettacolo e togliere la mazza dalla sua custodia. Lei aveva annuito, la mazza, aveva sorriso. Probabilmente, bussare alla porta di Elena era stata una sua idea. Ma non era in casa, così avevo guidato fino alla casa del suo ragazzo, con il solo pensiero in testa dei miei poveri fiori, rovinati per sempre per colpa sua, e lo sguardo fisso della mazza a incitarmi. Ci avevo messo anni a rendere meraviglioso il mio giardino, a disporre in ordine cromatico i tulipani, a trovare la giusta esposizione al sole per tutte le specie, ad abbinare geometricamente le forme dei vasi. Dovevo rifare tutto daccapo.
La sequenza di immagini di Elena sdraiata sul pavimento iniziò di nuovo, mischiata con quella in cui ero in auto e guidavo, e poi mi fermavo a pulire la mazza. Stava ricominciando tutto, ma il frastuono metallico della porta le interruppe entrambe. Strappai l’attenzione dal soffitto e alzai piano la testa dal cuscino.
Una donna era ferma sulla soglia, con le mani sui fianchi. La sua divisa bianca si intonava alla perfezione con i muri, il pavimento e gli arredi della mia stanza. Mi dava sollievo tutto quel bianco. La donna lanciò un’occhiata al vassoio sul tavolo, poi guardò di nuovo me.
«Ehi, Pollice Verde,» disse, «se non prendi tutte le pastiglie il dottore non ti lascerà andare in giardino, stasera.» Poi uscì e chiuse di nuovo la porta a chiave.
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Chiara Rassu (Nuoro, 1993), aspirante sceneggiatrice, è attualmente impegnata nella stesura del suo primo romanzo. Ascolta il racconto letto in questo video: https://youtu.be/D8fpRfveFlI