Fossili
L’oceano srotola le sue onde una dopo l’altra, sbobina e riavvolge la sua inquietudine senza fine, slinguazza la spiaggia, le gratta via il palato, la digerisce nei suoi intestini cupi. Fa bene, non c’è molto da salvare da queste parti. Il sole ha appena imboccato la discesa, brucia gli occhi. Li stringo forte, li riapro. Noto l’ermellino erigersi con uno scatto, fissa dritto davanti a sé. Le sue gambe dal ginocchio in giù sono nascoste dal muretto a secco che lo ripara dal vento quando si stende come un cecchino in attesa. È immobile. I suoi movimenti sono di affidabilità nordica, la loro interpretazione è agile, inequivoca. Mi volto. A una quindicina di metri da me, bene in vista sia per me che per l’ermellino, che ha però il vantaggio tattico di spuntargli un po’ alle spalle, si sono seduti a ridosso di una collinetta sabbiosa due ragazze e un ragazzo. Fingo disinteresse. L’ermellino resta fedele al suo ruolo di vedetta, rigido come una stalagmite. Solo il pene si muove ciondolandogli orgoglioso tra le gambe con dei piccoli spasmi, gonfio e semieretto. Non so come faccia ma riesce a mantenerlo così per decine di minuti, veicolando attraverso quell’appendice i movimenti più significativi della sua danza seduttiva. Tiene le mani poggiate ai fianchi, cela l’ossessione sotto enormi occhiali da sole. Sembra più un suricata che un ermellino, ma non evoca la simpatia del primo né il candore del secondo. Ha il naso adunco e scarno come un osso spolpato, i capelli biondicci e cortissimi di chi non ritiene giusto spendere tempo in un’acconciatura, il corpo spigoloso e affamato, pallido come la bramosia al plenilunio. Potrebbe essere il tipo d’uomo che cena insieme a una donna per poi ucciderla e mangiarla; potrebbe essere un banale deviato, consumato, ottuso, vinto, uno dei più. Il ragazzo adesso è sdraiato, indossa il costume, ha gli stinchi pelosi. Al suo fianco siede la mora: capelli sotto le spalle, abbronzata, magra ma morbida, un bikini argentato su tette di prima categoria; se dovessi, direi italiana. Accanto a lei c’è l’altra: minuta, carnagione chiara e indifesa, capelli biondi per il sole e lunghissimi che le cadono in un rigagnolo d’oro fino all’ombelico; sotto la magliettina intuisco tette piccole e sode, capezzoli ultrasensibili e duri come caramelle; occhiali sportivi e pantaloni leggeri pieni di tasche le danno l’aria da backpacker, immagino un culo tonico piantato su gambe marmoree. La mora si toglie il reggiseno con noncuranza, ignara. Mi massaggio d’istinto il cazzo. Tette piene, erette, capezzoli piccoli e rosa: la perfezione mammellaria, l’idea iperuranica del seno, eccola qui, davanti a me, così vicina da saccheggiarmi i polmoni, così lontana da farmi male allo stomaco. Il cazzo dell’ermellino si protende a mezz’aria verso di loro, le punta come per trafiggerle al costato. A parte quello, il resto della sua figura continua a starsene immobile come la statua rosata di un verme. Rosata e rasata, vittima anch’egli della convinzione estetica secondo la quale i peli sulle palle sarebbero da condannare come un retaggio volgarmente animale, e l’ermellino vuole essere a ogni costo considerato un uomo, detesta che ci possano essere fraintendimenti al riguardo. Ecco affacciarsi il gibbone, ha sniffato la fica nell’aria e ora si affaccia dal suo fortino, il più imponente della zona, un’ampia fortificazione circolare in cui ci si potrebbero inculare un paio di coppiette al riparo dal vento canario, e dove invece banchetta lui solo. È sulla soglia, parzialmente occultato da una torre di sassi alta un paio di metri che impreziosisce di maestosità priapesca la sua residenza. È abbronzatissimo e grasso, lucido come un mollusco passato nel burro, ha la pancia gonfia e regale, i muscoli delle spalle definiti. Credo che si consideri grosso più che grasso, credo che faccia pesi in palestra. Ha i capelli folti, neri e chiazzati di grigio, ingelatinati e stirati sul cranio come le spine a riposo di un istrice. Ha passato i quaranta, credo sia spagnolo. Si guarda intorno di continuo sbandierando un sorrisetto di difficile interpretazione. Ipotizzo un impiegato madrileno narcolettico. Celato dietro il fallo roccioso, scatta la testa un paio di volte a destra e a sinistra, poi si fissa sulle tette della mora e inizia a frugarsi nervosamente tra le gambe. Io, lui e l’ermellino presidiamo i vertici di un triangolo all’interno del quale ogni manifestazione umana è assoggettata al potere delle nostre fantasie, piegata a novanta dal maglio delle nostre cappelle grondanti. Siamo una versione a tre punte del pentacolo mistico, evochiamo solo demoni lussuriosi. I nostri sguardi si incrociano di rado: febbricitanti, elettrici, spaventati dalle somiglianze smaniose dei nostri volti, dai solchi troppo familiari delle loro incrinature. La bionda si toglie i pantaloni ma non la maglietta, non indossa il costume ma mutandine bianche e ricamate. I capelli le fiammeggiano alti per il vento mentre si china in avanti. L’ermellino dà due colpi secchi di tosse per schiarirsi la voce, che mi pare acuta e ridicola rispetto alle tonalità profonde che credevo sprigionassero le cavità della sua abiezione. La bionda si volta e lo vede, col suo manganello innervato, voltato di tre quarti a fingere di scrutare lontano, poi si gira circospetta e dice qualcosa avvicinandosi alla mora che si sta controllando le unghie dei piedi. I loro capelli si fondono. Si voltano entrambe a guardare l’ermellino. I loro occhi lo colpiscono e lui assorbe l’onda d’urto lasciando che la magnitudo della scossa si sfoghi interamente attraverso il cazzo, che annuisce sussultando verso l’alto. Gli occhi delle due ridacchiano. Il gibbone fa un passo oltre il totem e mostra il suo membro piccolo e tozzo mentre con una mano lo stira di lato nel tentativo di renderlo più appetibile. Lui e l’ermellino stanno concentrando tutte le loro energie nel rito. La bionda subisce il sortilegio e, dopo aver sussurrato qualcosa all’amica, si toglie le mutandine e si distende. Il gibbone fa un passo malfermo in avanti, pare volersi strappare l’uccello. Se la bionda aprisse le gambe potrei studiarle la fica. Il ragazzo alza un po’ la testa: lo noto in ritardo, mi sgama col cazzo in mano. Non può esserne certo perché ho la meschinità della mia duna a farmi da scudo, così fingo di essermi rivolto verso di loro quasi per sbaglio e volto le spalle. Sono seduto, afflosciato in avanti, la punta del cazzo mi fissa lo sterno. Mi volto ancora ma paziento troppo poco, il ragazzo mi sta ancora fissando. È giovane, atletico, attraente, ha i capelli folti e lunghi. Sibila qualcosa a denti stretti senza staccarmi gli occhi di dosso, credo imprechi. Mi disprezza. Fuggo i suoi occhi. Le ragazze ridono e gli rispondono, ma io non riesco a capire niente a causa del vento che amputa le parole. Lui rincara la dose e si adombra. Vedo l’ermellino lasciarsi cadere dietro la sua trincea e da lì fare capolino presagendo la disfatta. La sagoma del gibbone scompare parzialmente dietro il totem, il pancione continua a sporgere come un grosso pezzo di maiale cotto alla brace. Torno anch’io sotto coperta: insceniamo la tregua, camuffiamo gli intenti come bambini, nascondiamo i cazzi sotto la sabbia. Due minuti dopo, i tre si alzano e se ne vanno ridendo forte per assicurarsi che noialtri non fraintendiamo il messaggio: siete degli insetti ridicoli che si nutrono di rifiuti, delle blatte insignificanti, degli squallidi guardoni. Il solo pensiero di provare a dargli torto mi stanca. Poco dopo l’ermellino mi passa davanti mentre incede col solito passo marziale e incomprensibilmente affrettato che usa quando si lancia in ricognizione, per un attimo mi guarda e io mi sento colpire da pietre d’accusa e sputi di disprezzo. E accetto, accetto tutto. La grande duna splende come la scenografia di un western e ci ripara dai venti che arrivano molesti da nord-ovest, ma farebbe meglio a lasciarci trascinare via, in alto, dove non si respira e fa freddo. Nell’ampio spazio calpestabile che si stende tra lei e l’oceano ci sono i bozzoli larvali che hanno gonfiato la sabbia in una miriade di tumuli sormontati da arbusti pronti a fiammeggiare teofanie, tra i quali serpeggiano i vicoli antichi dove ci acquattiamo noi, a vegliare le ore che colano sulle macerie dei nostri desideri, sui sogni polverizzati che continuiamo a sognare istupiditi, distesi al sole come carcasse. Ed eccomi qui, calvo, brutto, basso. A parte avere un cazzo statisticamente sopra la media, potrei definirmi fisicamente repellente. L’amore delle creature che io amo mi è precluso, e lo sbigottimento dei loro volti quando ancora mi illudevo di poter rivolgere loro la parola mi ha ucciso così tante volte che ormai la morte me la trascino dietro, vive nella mia ombra, ride di me. Non posso andare a puttane perché il loro totale disinteresse nei miei confronti mi deprime. Avessi almeno il potere, il denaro, sarebbe un’altra storia: le donne desiderano sottomettersi ai campioni del mondo, ai vittoriosi, ai naturalmente virtuosi; li amano per quanto volgari, moralmente inesistenti, culturalmente pronti a riscrivere qualsiasi libro sostituendo a ogni parola il loro nome, convinti intimamente che la trama ne gioverebbe. Accumulo fasci d’erba, approssimazioni patetiche, ne sono consapevole, e lo faccio per innalzarmi al di sopra di loro, perché vivo nella polvere dei loro sandali, nelle briciole dei loro pasti, nei profumi che le loro fiche si lasciano dietro così da far sbavare i cani. Non c’è niente per me, solo una manciata di granelli minuscoli ad accogliere i miei spermatozoi stanchi, spauriti, ultimi reduci di una stirpe infame, restii a morire uno dopo l’altro nel peggiore dei sacrifici possibili, quello inutile. Riesco a dispiacermi pensando alla morte dei miei spermatozoi, a dispiacermi sul serio come di fronte a un olocausto. La mia sensibilità è forse il mio unico pregio, ma è anche il mio castigo, perché non posso condividerla. Ciò che sono, nella misura in cui si è qualcosa solo quando si è conosciuti, è niente: sono il suono dell’albero che cade nella foresta senza che ci sia nessuno a sobbalzare per lo schianto; sono idee, sensazioni e intuizioni già dimenticate. E mi sta bene, mi sta bene tutto. Non credo che molti potrebbero accettare l’idea di essere niente o poco più, per quanto questa sia una verità incontestabile nella stragrande maggioranza degli uomini. Certo, questo pensiero deprimente non deve togliere motivazioni all’agire nel presente, poiché il presente esiste, il futuro no. Contare qualcosa per qualcuno potrebbe voler dire contare qualcosa per qualcuno in senso assoluto, per sempre. Ora è sempre. Forse in questa testarda dimenticanza del tempo vive l’unica speranza d’eterno. E io ora non conto niente per nessuno, quindi sono il niente assoluto, il niente eterno. Anna mi ha tranciato il cuore, ne ha fatto colare fuori i pezzettoni della polpa, li ha osservati mentre si spiaccicavano sulle mattonelle sbeccate del cucinotto, li ha ascoltati esplodere al contatto col pavimento gelato prima di andarsene. Mi ha lasciato solo come un’ombra allungata nel deserto, l’ombra di una scheletrica formazione minerale. Un quarantenne brutto e solo è un essere sommamente infelice, poiché idealmente, a quest’età, l’uomo dovrebbe godere a pieno di ogni gioia della vita: le scopate assicurate, la saldezza degli affetti, la soddisfazione della responsabilità famigliare, dell’autorità patriarcale, dell’essere riconosciuto come un rappresentante della specie nel suo massimo grado di sviluppo. Mi sento come una pianta secca. Non ho ambizioni di carriera perché non ne ho possibilità, e anzi dovrei ringraziare iddio se ancora nessuno si è accorto della mia presenza tutt’altro che necessaria tra i quadri aziendali. Persino la mia utilità basilare mi pare a volte opinabile, e ogni tanto sento l’impulso di nascondermi sotto la scrivania per non farmi vedere, per evitare che qualcuno, passando lì davanti, notandomi possa chiedersi il motivo della mia presenza. Non mi spetta niente, neanche un cane. Potrei prenderlo, un cane, dovrei. Lo farò, appena a casa. Il pensiero mi rallegra, così faccio una passeggiata fino alla fine della spiaggia, ma ci sono solo vecchi tedeschi a rosolare, nudità innocue e lecite, nessuna elettricità nell’aria. Torno alla mia postazione un po’ sconsolato. L’ermellino si è ficcato il cappellino rosso sportivo sulla cui visiera trionfa il logo della Ferrari, i suoi occhi sbavano su ogni quarto d’ora. Immagino che il gibbone sia ormai pronto per essere servito a tavola. Sono stanco. Mi do un termine ultimo: alle sette inizia a far buio, quindi sto un’altra oretta e poi inizio a raccogliere il mio metro quadro di detriti. Mi distendo, chiudo gli occhi e provo a rilassarmi. Inspiro ed espiro piano, a fondo. Nessuno mi vede. Inspiro e trattengo. Nessuno vuole vedermi. Espiro forte. Avverto nitidamente l’inutilità della mia vita e mi sento forte, libero. Posso fare tutto perché non devo fare niente, posso avere tutto perché non appartengo a nessuno, possiedo la piena libertà di cancellare tutto quanto sono e sono stato, ne ho quasi il dovere. Ma come fare ad allontanarmi da me stesso, come farmi perdere le tracce? L’unico modo è congelarmi, divenire duro come un cristallo, e trasparente, così che la luce mi possa attraversare senza scalfirmi: imperturbabile. Mi accartoccio su un fianco, provo a non pensare. Sento un ansimo femminile alle mie spalle. Dove prima erano i tre giovani adesso siede una vecchia, deve aver ansimato mentre si lasciava cadere a sedere. È nuda, biondiccia, ha i capelli radi e mesti, il seno piccolo eppure cadente, il volto gonfio, le lonze ammonticchiate sulla pancia e striate di smagliature; le cosce sono la parte più orribile: l’epidermide è irregolare, piena di cicatrici e deformazioni incongrue causate dall’accumulo casuale dell’adipe, venata di fibrille violacee, macchiata di blu per le vene esplose. L’ermellino indugia solo un secondo, poi salta su e agisce senza alcuna vergogna. Il cazzo gli si gonfia come un pesce palla in allarme, e lui fissa la vecchia che, girata nella stessa direzione dei ragazzi, verso di me, non lo nota. Lui lascia la posizione panoramica per scendere sul campo di battaglia e si avvicina alla vecchia con aria truce, cattiva. La vecchia lo nota, gli fissa l’uccello, mi pare che sorrida. Il volto dell’ermellino non reagisce in alcun modo a quella dolcezza. Fa due passi decisi verso di lei impugnando il membro come fosse una clava, le si inginocchia a un paio di metri e inizia a masturbarsi lentamente. La vecchia dopo poco gli fa un cenno con la mano, lui le si avvicina strusciando le ginocchia sulla sabbia. Lei inizia a smanettarlo. L’ermellino si volta verso di me e mi fissa per qualche secondo prima che lei lo prenda in bocca. Io sono paralizzato, il mio cazzo si è nascosto nella sua veste grinzosa, non mi muovo di un millimetro. Il gibbone si manifesta alzandosi faticosamente nel suo rifugio come l’anima grave di un dannato, poi ciondola oltre il totem e osserva la scena. Si stira l’uccello su un lato, tituba, il sorrisetto è d’incertezza. L’ermellino gli fa un gesto gelido col capo. Il gibbone si avvicina. La vecchia molla l’ermellino e si volge al nuovo arrivato, si torce verso di lui, gli dedica il suo miglior sorriso. Lui ricambia con uno sforzo meccanico. Lei gli suggerisce di sederle accanto battendo una mano sul suo grande asciugamano. Il gibbone accetta. Lei si mette in ginocchio e inizia a succhiarglielo porgendo all’ermellino il profilo di un’enorme mela cotogna. L’ermellino saggia con le dita il varco, si prepara a penetrarla. Io torno a stendermi. Chiudo gli occhi. Nessuno vuole vedermi. Sento degli oh gutturali soffocare la vecchia. Neanche io voglio vedere nessuno. – Altesau! – urla l’ermellino mentre il suo bacino assalta quei glutei disastrati. Più solo di così non potrei essere. – Dustibst, dustibst! – ha la voce di una ragazzina. Vorrei che la terra mi inghiottisse, che il vulcano si risvegliasse e spalancasse la bocca per risucchiarmi e poi soffiarmi in alto, cenere fluttuante che poi si ammucchierebbe in qualche angolo, mischiata ad altre ceneri. L’ermellino stride lontano. Voglio seccarmi al sole come una conchiglia vuota, come un pezzo di corallo cresciuto sullo scafo di un galeone affondato, e ora qui, miseramente fuori contesto, fastidioso come un sassetto appuntito. Una nave coperta di coralli. Tornare laggiù, artigliare la carcassa pirata. Lì è il mio posto, lì sto bene. Mi ricongiungo al mio ramo e torna a fluire in me il fluido vitale, ritorno a splendere viola. Sento che gli altri rami mi sono fratelli. Da una finestrella quadrata attraverso la quale sparavano i cannoni giunge una luce azzurra e spettrale. Ogni ramo sono io. Risalgo lungo il mio corpo che ha scavato una via nello scafo, penetro sottocoperta. Le assi del pavimento emanano una luminescenza spettrale, un sottobosco di alghe ondula sinuoso, un forziere galleggia nell’acqua, due pirati si inculano al rallentatore, una coppa di vino ruota su se stessa senza che il liquido ne fuoriesca. I pirati mi guardano, si avvicinano, hanno il pube piatto dei giocattoli. Mi staccano un pezzo, staccano me. Il pirata dalla barba nera e folta indossa una giacca rossa di tre quarti e degli stivali col risvolto, mi tiene stretto in pugno e vorrebbe infilarmi nel culo dell’altro, che pare un mozzo, sono molto eccitati al riguardo. Ci restano male quando rifiuto. Il pirata che mi tiene in mano schiaccia l’altro sul muro e gli infila me nel culo, mi infila nel suo culo. È un passaggio fragile e ruvido, e io struscio sulle sue pareti consumandole come tufo. Si sbriciolano, e allora vedo il sole. È buio, ho un brivido. Cazzo, mi sono addormentato nudo sulla spiaggia. Cerco a tentoni le mie cose e trovo lo zainetto, il costume e la maglietta. Mi vesto veloce e faccio per andarmene, ma i miei occhi, iniziando ad adattarsi all’oscurità, notano un bagliore rossastro. In fondo alla spiaggia c’è un fuoco. C’è della musica. Mi avvicino, mi fermo a una decina di metri dall’ampio cerchio di sabbia illuminato dai palpiti del falò. Al suo interno ci sono dei giovani. Alcune ragazze si sono tolte la maglietta e indossano il reggiseno del bikini sopra a shorts di jeans o a teli colorati legati in vita. Qualcuno ha attaccato il telefono a un paio di casse: A mi manera, Gipsy Kings. Chiudo gli occhi e ascolto. Ogni volta che la canzone ascende, sussulto di commozione. Ho gli occhi lucidi, ci vedo male. Ricordi quando l’ascoltavamo? Ricordo solo io? Mi allontano, mi muovo tra le dune. Scopro due ragazze e un ragazzo scopare come animali, i loro corpi sono spettri di fluoro rosso. Voglio immergermi in loro. Mi avvicino, sono nudo. Mi vedono e urlano, mi accusano di non capisco cosa. Scusate, scusate, vi prego. Accorrono gli altri, si portano dietro dei legni infuocati. Linciaggio vecchio stile, torce e bastoni. Mi dileguo nel buio come il lampo di una lama. Li sento, sono incazzati. Mi sembra giusto, non avrei dovuto, non avrei mai dovuto. Ecco l’oceano, il grande nulla. Sento che gli appartengo da sempre, che lui appartiene a me, e a lui ritorno. L’acqua è fredda solo per un attimo, poi sto bene. Nuoto piano, con la testa alta, fino a non poter più toccare i piedi. L’orizzonte è in burrasca, sulla sua fronte scorrono i fulmini, scendono lenti, dilatati, fino a divenire striature tremule, cicatrici elettriche, crepe luminose. Cosa c’è oltre il cielo? Sento delle urla, mi volto. La spiaggia non è lontana. Le fiammelle si muovono una dietro l’altra avanti e indietro, da sinistra a destra e da destra a sinistra, ripercorrono la stessa strada come un rettile spastico. Si fermano improvvisamente davanti a me. Giungono brandelli di grida. Sento un tonfo in acqua, poi subito un altro. Mi stanno tirando qualcosa. Un dolore rosso si espande nella testa, brucia. Qualcosa mi afferra per la mascella e sprofondo giù, scivolo nel nero. Fumi gialli salgono da orifizi geologici. Sento il mio sangue ribollire, lo sento scaldare l’intero oceano. Cammino piano sul fondo, sono avvolto in un’aura di tepore vulcanico. Qualcuno è dietro di me, mi guida: un crostaceo, un insetto marino. Al mio passaggio la terra freme, mi celebra. Esco dall’acqua. Non sento niente, non vedo nessuno. Lontano c’è il fuoco, ho freddo, mi avvicino correndo. Le fiamme non mi scaldano. Sono così vicino che mi pare di potermi specchiare nel cuore bianco della pira. Ci infilo una mano. Le fiamme che mi sciolgono la pelle sono blu. – È zolfo. – Apro gli occhi, mi volto per cercare chi ha parlato, poi riprendo contatto col reale, con le dune, con l’ermellino, col gibbone e con la vecchia, che non ci sono più. Non sono rimasti a farsi le coccole. Cerco le loro orme sulla sabbia, le loro tracce, ma il vento le ha cancellate come se non volesse serbarne memoria. È come se non ci fossero mai stati, e tale pensiero mi dona una limpida allegria. Mi infilo il costume, la maglietta e mi alzo. Il sogno che ho fatto mi ha lasciato il magone, eppure mi sento più forte, meno solo. Non importa, tra un’ora l’avrò dimenticato. Il sole dietro la grande duna è un tizzone di brace, il cielo pulsa purpureo in un ultimo battito. È quasi notte, e le ombre è giusto che scompaiano. È il momento di ritornare nella tana.
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Alessandro Ceccherini è nato a Poggibonsi (Si) l’11/1/1985. Laureato in Filosofia, vive tra Certaldo (Fi) e Genazzano (Rm).