Testosterone
Ho perso le parole da quando ho messo tutto sui fianchi. Non è un caso. Ricordo che anni fa, quando ancora mi mettevo in gioco, al corso di recitazione, ci spiegarono che nulla nel comportamento è lasciato al caso, e che per fare capire le tue intenzioni al pubblico già solo dalla camminata con cui ti avvii ad agire, devi fare partire il movimento da determinate parti del corpo. Ad esempio, se cominci a camminare tirato dalla testa, significa che devi, che quello che stai per compiere è un dovere. Se invece la tua camminata parte dai fianchi, significa che quello che stai per fare è mosso da una necessità e non puoi farne a meno. Questa cosa di mettere tutto sui fianchi mi capita anche mentre ballo. Da un po’ le spalle mi stanno ricurve e ho come un buco nello sterno intorno a cui mi arrotolo, e la testa molle. Il bacino invece è forte e fa tutto lui, si trascina dietro il resto, come un’appendice scomoda e ingombrante. Così la testa mi si è svuotata, e adesso è come i portici di Bologna in piena notte, fermi e di marmo, che tremano ad ogni passo, come se fosse un’esplosione. Ed è per questo che a Torino mi sono messa a correre anche io, senza mettermi a pensare se quel boato fosse uno sparo o un petardo. I miei fianchi sapevano già che era giusto correre, che ad ogni azione corrisponde una reazione istantanea, e che se ‘sti stronzi mi volevano ammazzare io sarei stata più veloce di loro. E sentivo i vetri sotto le scarpe, e gli altri sotto le scarpe, ma la testa era ciondolante, come un tumore benigno, una ciste che contribuiva al mio corpo giusto nell’aumento di peso, e a rallentarmi. Non so quando sia iniziato tutto, se il cranio mi si sia svuotato lentamente, come un lavandino che perde, goccia dopo goccia, scivolando dall’orecchio, o se le farfalle siano fuggite di botto, da uno spiraglio, magari dalle narici, mentre dormivo, e una volta fuori si siano messe pure a festeggiare la libertà e la luce e l’aria. Ma è successo, e tutto quello che ripassa qui dentro, dentro questo cranio, è solo una proiezione. I fianchi ricevono e tutto rimbalza e si imprigiona in questa sfera ossea, fino illudermi che io stia pensando. Perché tutto è una necessità, e io non posso fare a meno di rispondere: bisogna scappare, bisogna perpetuare la specie, bisogna stare in guardia. Difendermi. Difendermi. Non posso fare a meno di difendermi, sempre. E vorrei un’arma per farlo meglio. Perché nessuno lo fa per me. Mi difendo dalle illazioni, dalle violenze, dalle notizie, dai giudizi, respingo ancor prima di capire, perché capire è un dovere, lo diceva il maestro di teatro, che quello che è in testa è un obbligo, e io sono stanca dei doveri, di fare per non ricevere mai nulla in cambio, niente dallo Stato, niente dalla sorte, niente dalle banche. Io oggi faccio solo quello che mi serve, davvero – a me – nel profondo. E se la sparo grossa, quando chiacchieriamo davanti ad un caffè, una tisana, un ginseng, e mi scappa da dire che io quelli li ammazzerei tutti, perdonami, ma mi rende felice, perché so che la sto dicendo tutta, senza sconti, senza le barricate che era solita alzare la sensibilità del mio vecchio e stanco cervello, che con quel suo fare da frocio mi metteva in guardia dai pensieri che sarebbe stato ingiusto fare. E invece esplodo, perché non devi più dirmi cosa devo fare, cervello, io sto con le anche che mi danno la libertà di ammazzare chi voglio, anche in casa tua, in quel cranio che mi riflette. E va bene, va tutto bene, perché in giro vedo gente come me, con la sindrome da testosterone, che deve dimostrare la forza, prima di tutto, con le parole, con le braccia, con gli olii essenziali, e, come il mio, il loro mento tocca lo sterno, e la testa ciondola come un palloncino sgonfio. Per tirare pugni devi stare sui fianchi, per scopare devi spingere sui fianchi, per non cadere i fianchi devono essere saldi. Necessità. E noi, esseri necessari, ci scambiamo e ci passiamo i lividi e le sifilidi, ci infettiamo e sbraitiamo perché non so più come si dice la verità senza urlare, perché la mia è una verità troppo necessaria per essere argomentata, io te la sputo addosso e ti attacco anche il raffreddore perché mi rende felice sapere che ti ho fatto qualcosa che tutti possono vedere: è la mia prova di forza. Il testosterone mi gonfia.
Dove si è troppo impegnati a difendersi, ad azzittire, a costruire fortezze che dimostrino quanto ce l’abbiamo duro e al contempo tengano lontani sia gli altri che le minacce (che così si chiamano solo perché analizzate tra le cosce), non c’è più spazio per i desideri. E sembra strano ricordarlo adesso, ma il maestro di teatro parlava anche di un terzo modo di camminare, quello che viene comandato dal petto. Io voglio. Io voglio andare, io voglio fare. Desideri. Sono loro che ti portano a camminare col petto, coi polmoni, con la cassa toracica che scricchiola mentre respiri. È pericoloso, perché il petto ti porta fuori, ti sbilancia e in un secondo non sei più sui piedi, e si cade, ma le ginocchia sbucciate sono roba rara, da bambini forse, o da qualche sportivo amatore. Perché in fondo cosa ci è rimasto da desiderare? Un lavoro, l’amore, una casa, una laurea? Mai più in là di me, desidero solo quello che posso rinchiudere assieme alle mie ossa, nella bara, dopo la morte. Una fine migliore, forse? Passo ogni giorno da quell’incrocio, nelle basse, e so che un giorno morirò li. Vedo lo schianto, l’ambulanza, il sangue e mia madre in lacrime. Potrei desiderare una fine migliore, ma non cammino ancora con il petto. Per desiderare serve allenamento, servono le parole giuste, quelle che ci definiscono, e definiscono gli altri, le cose, i rapporti, le speranze, le utopie, il mondo, quello peggiore e quello migliore. Sono finita, perché ho perso le parole. Non so più descrivere i desideri, non so più spiegarli, e dopo un po’ finisco li, sul divano, coi fianchi disinnescati che non rispondono più a nessuno per stanchezza, e non mi pulsano più le vene, non ho nulla da raccontarmi, non ho parole per raccontarmi, non ho discorsi da condividere e ho lo sterno chiuso, le scapole alate, un buco sullo stomaco intorno a cui mi raccolgo, e la testa ciondola, senza ricordarsi come si capisce, come si esplora, come si percorre, di gomma. Il testosterone si riposa. Se tutto questo è sintomo di qualcosa, credo che la mia testa l’avrebbe capito in poco, che si tratta dell’estinzione.
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Laura Morandi nasce a Modena nel 1991. Inizia a ballare a quattro anni, e a scrivere a sei, e in queste due opzioni continuerà, sempre, a comunicare, come se le appartenesse uno speciale bilinguismo. Vive a Spilamberto, piccolo paese della provincia emiliana, famoso per aceto balsamico, leggende e storie partigiane, dove impara l’attivismo e la passione politica. Laureata in Italianistica e Scienze Linguistiche presso l’università di Bologna, ama i libri, il cinema e nella vita è danzatrice e insegnante di danza. Scrive su riviste culturali e sul blog di racconti brevi Pausa Paglia (pausapaglia.it).