Sabato sera
Provo a buttargliela lì da settimane. Sarà una serata diversa, proveremo una cosa nuova, poi potrai parlarne ai tuoi colleghi nell’aperitivo del martedì. Ma non cede. Forse perché di recente ha già raccontato del viaggio in Uzbekistan in quel camping environmental friendly e non vuole dare l’impressione di strafare con le esperienze costose. O forse perché ha paura a scivolare nell’abisso di animalità del nostro passato di esseri umani per cui io provo, invece, un’inspiegabile e folle attrazione.
Qualcosa inizia a smuoversi dentro di lui quando la metto sul piano del gioco sessuale. Bisogna nutrire le nostre perversioni, gli dico, l’ho letto su una rivista di argomento scientifico, una di quelle serie, ché poi finisce che gli impulsi repressi ci avvelenano l’anima e ci trasformiamo in mostri. Cosa c’entrano le cose sessuali, mi chiede. Guarda che non è tanto diverso da quella volta in cui abbiamo provato una cosa a tre con quella studentessa in Erasmus, gli dico, o di quando abbiamo pagato un ragazzo per guardarci mentre ci toccavamo a vicenda vicino alla culla di nostra figlia.
Quelle erano cose un po’ diverse però, mi dice. Per me no, rispondo. Per me ha tutto a che fare con l’esplorazione di chi siamo, di ciò che il nostro corpo può o non può fare. O poteva fare. È una mezza verità, ma gliela pronuncio con voce perentoria e sensuale e lui si lascia ammaliare. La verità vera è che voglio prendere le nostre cellule e ubriacarle di puro dolore e di pura vita.
E va bene, ma questa volta offri tu, mi dice. Ma certo, gli dico, era scontato che toccasse a me.
Gli è sempre piaciuto avere una compagna piena di idee e credo che avesse il terrore, quando siamo andati a prendere nostra figlia, che qualcosa tra noi cambiasse. Deve essersi rallegrato non poco quando ha capito che non era così. Anzi: l’arrivo di nostra figlia ha reso il mio corpo, se possibile, ancora più ricettivo, ancora più connesso ad alcune spinte selvatiche, ancora più avido di cose da provare. A volte penso che la mia voracità lo ecciti e spaventi assieme.
Decidiamo di prenotare per sabato prossimo. Subito, prima che cambi idea, mi dice. Io non sto nella pelle.
Selezioniamo il pacchetto che dura due ore, che alla fine è un buon compromesso tra l’intensità dell’esperienza e il prezzo. Ce ne sono anche da mezz’ora, ma non ne vale la pena, mentre quelli da quattro ore sono più impegnativi, più indicati per un corpo già allenato, per chi pratica sport estremi e non per chi ha problemi di cuore.
Oggi al pranzo con mia madre nel solito ristorante greco, mentre schiaccio con foga una polpetta alla melanzana, non penso ad altro. Mia madre mi chiede cosa faremo sabato prossimo, visto che le ho chiesto di tenere mia figlia. Le dico che lui ha una grigliata vegan con i suoi colleghi e che i partner sono invitati, ma i figli no. Tenere nascoste le cose a mia madre mi pompa nel corpo una sorta di iniezione adrenalinica di adolescenza. Mentre le mento sul nostro sabato sera guardandola dritta in viso mi sento più tonica, più pronta a divorare il mondo.
Mia madre non approverebbe, di sicuro ha seguito tutta la polemica che c’è stata su questo tipo di esperienza e sul significato che ha per noi donne secondo i detrattori. Si vergognerebbe di me se sapesse e io di certo non ho voglia di mal digerire la polpetta alla melanzana con la solita discussione sui diritti che le donne nei secoli hanno acquisito.
Provo a lavorare davanti al computer tutto il pomeriggio, ma mi accorgo che i miei pensieri tornano fatalmente all’appuntamento di sabato sera. Mi informo su internet sull’abbigliamento consigliato, ma non c’è nulla di indicato né di sconsigliato. Scorro le foto delle recensioni di chi l’ha già fatto e noto che hanno quasi tutti una tenuta sportiva. Forse per una questione di sudore, penso. Si suderà molto, meglio riversare i propri liquidi corporei su una T-shirt in cotone biologico con proprietà traspiranti.
Guardo mia figlia che dorme e ripenso al pranzo con mia madre. Immagino di averle detto la verità, immagino di rispondere con foga e precisione alle sue argomentazioni, immagino di non lasciarmi soccombere dal suo furore metodico e immagino, anzi, di trionfare dimostrandole non solo che ho tutto il diritto di fare ciò che voglio, ma soprattutto che no, concedersi questa esperienza per me non è e non sarà un’offesa a ciò che noi donne abbiamo conquistato, ma, anzi, sarà un riconnettermi all’essenza profonda di ciò che significava vivere in un mondo più selvaggio. Accollandomi, come dice lei, il flagello delle imposizioni biologiche che ci rendevano diverse dagli uomini.
Il fatto che il mio compagno sia disposto a provare anche lui l’esperienza non verrebbe comunque visto da mia madre come un punto a favore di questa cosa. Anzi. A lei lui non è mai del tutto piaciuto, lo trova troppo dipendente da me, un cagnolino, dice, pende sempre dalle tue labbra, e questa cosa non le va a genio.
Mi si ripresenta un frammento di quando io e lui abbiamo scopato nel salotto di casa di mia madre mentre lei era in ospedale con una gamba rotta e le avevo promesso di curare la sua gatta siberiana. Quella volta aveva iniziato lui, forse perché il divano di pelle di mia madre gli era sempre piaciuto, in particolare la sensazione di attrito appiccicoso e il rumore gracchiante delle nostre pelli sudate a contatto con la superficie del divano. O forse perché anche lui, come me, voleva lasciare una traccia del passaggio dei nostri corpi nudi in casa di mia madre.
Sorrido con soddisfazione ripensandoci, a dimostrazione del fatto che lui non è così privo di iniziativa come mia madre crede. Mia figlia, nel frattempo, butta fuori qualche brontolio.
Mi preparo un estratto al melograno mentre faccio mente locale su quando ho lavato i capelli l’ultima volta, e se devo lavarli prima o dopo il sabato.
L’ingresso dell’edificio è di quelli con porte scorrevoli di vetro, e poi un corteo di pannelli pubblicitari luminescenti e animati accompagnano la salita al primo piano sulle scale mobili.
Ci presentiamo alla reception entrambi con un abbigliamento sportivo fucsia e nero, più aderente nella parte sopra: mi piace mettere in mostra il corpo atletico e mi piace sottolineare che sono pronta ad affrontare il lato fisico della cosa.
La receptionist ci chiede se abbiamo già fatto esperienze di questo tipo, no, rispondiamo, se abbiamo disturbi cardiaci, neanche, se soffriamo di epilessia, se siamo facilmente impressionabili, eccetera, e poi ci dice che, durante le nostre due ore, nella stanza riservata a noi, se avete un attacco di panico o anche solo un ripensamento potete schiacciare il pulsante rosso, su questo bracciale qui, tenetelo sempre al polso, lo schiacciate con una leggera pressione e tutto si interrompe all’istante.
Ma a quel punto l’esperienza non è rimborsabile, precisa con un sorriso. Non ci sarà bisogno, dico io, il mio compagno mi spalleggia con una battuta, la ragazza emette un risolino e passa all’illustrazione del procedimento.
Precisi stimoli elettrici, inviati come informazioni al nostro cervello, lo sollecitano fino a fargli esperire una simulazione del tutto realistica dell’esperienza così com’era, spiega la ragazza sorridendo, ma il mio cervello è già in una bolla di euforia e i miei occhi sono fissi sul pezzettino di prezzemolo che si è arenato tra il secondo e il terzo dente in alto a sinistra della ragazza, che ho notato solo ora.
L’unica cosa non propriamente realistica, dice la ragazza con rammarico, è la tempistica: di solito poteva durare diverse ore, spiega, noi l’abbiamo condensata per voi in una pillola esperienziale di due ore, per renderla ancora più godibile.
Firmiamo un documento che tutela la società da ritorsioni legali se dovessimo avere un malore o presentare danni psicologici permanenti. Osservo con la coda dell’occhio per vedere se il mio compagno ha qualche esitazione nel firmare, ma con compiacimento vedo che è spedito. Neanche un tremolio.
Mi chiedo se lo stia facendo per me, o se davvero la cosa lo intrighi. Credo che non lo saprò mai.
Entriamo nella nostra stanza privata tenendoci per mano, mi batte il cuore e so che sta battendo anche a lui, lo sento dalla pressione intermittente che il suo polso fa sul mio. Mi sudano le mani, mi sistemo il bracciale con il pulsante rosso, che continua a scivolare in avanti, osservo la ragazza della reception salutarci e sparire da dietro la porta scorrevole.
Davanti a noi c’è un letto matrimoniale, coperte chiare, profumate. Su ciascun lato c’è un visore. Li prendiamo e ci stendiamo, guardandoci con un sorriso che mi ricorda quello dei nostri primi rapporti sessuali insieme, quando i nostri corpi erano ancora una reciproca scoperta.
Siamo sdraiati, indossiamo i visori e ci stringiamo nuovamente le mani.
Inizio dell’esperienza virtuale in corso, dice una calda voce metallica, in caso di necessità potete interrompere l’esperienza premendo sul pulsante rosso, sì, lo sappiamo, penso io, ora però facci iniziare, che mi sta tremando tutto il corpo, che sento ogni fibra della mia pelle in tensione, che una parte di me vorrebbe premere quel pulsante ma l’altra parte di me mi impone di restare lì, in attesa di farmi spezzare in due dalla vita e dal dolore.
Inizia come uno strappo nel basso ventre e mentre sento una specie di liquido che mi esce dalla vagina penso a quanto l’esperienza sembri realistica, mi chiedo come abbiano fatto con la ricostruzione, questo la ragazza non l’ha spiegato, se hanno preso per esempio le terminazioni nervose delle scimmie, o di quale altro mammifero.
Poi non c’è più tempo per i pensieri e c’è tempo solo per il corpo.
I muscoli mi si contraggono a intermittenza, come se fossero fili tirati da una mano invisibile verso il basso. Grido, grido di dolore e sento in lontananza le urla del mio compagno che spezzano l’aria. Siamo uniti, ancora più uniti, immersi in questo abisso di violenza delle carni, con le vene iniettate di questa cosa truce che ha un centro nel basso ventre, nel mio organo riproduttore non più silente e, anzi, tremendamente vivo.
Urlo come non ho mai urlato neanche durante i nostri rapporti più intensi. Il mio compagno continua anche lui a gridare e per un istante mi chiedo cosa stia provando, se l’esperienza sia così sofisticata da farti vivere il dolore dentro un corpo di donna, se lui adesso senta di avere un utero e una vagina. Ma i pensieri durano sempre poco, perché un nuovo dolore li spezza, una nuova spinta che spreme i muscoli e indirizza tutte le sensazioni verso il nucleo vitale che pulsa là sotto.
Una fitta in mezzo alle gambe mi apre in due come se un coltello mi dividesse da parte a parte e sento la pressione di un corpo estraneo che vuole essere sputato fuori ma non ci riesce, come se avessi ingerito una pietra, spigolosa, questa cosa enorme e appuntita cerca di uscire da me ma il mio corpo non è abbastanza largo per farla passare.
Restiamo immersi in questo travaglio per un tempo che mi sembra molto più breve di due ore. Il mio compagno grida con me, si dimena con me, piange con me, ci stringiamo la mano per tutto il tempo e questo furore selvaggio che ci prende è qualcosa di incredibile, mai provato prima.
Il dolore è così forte che più volte vorrei premere quel pulsante, che mi dico chi te l’ha fatto fare di venire qui, ma poi non lo faccio, qualcosa mi tiene ancorata lì, qualcosa mi dice ancora un po’. È come un terremoto con un epicentro nella parte bassa e le diramazioni del dolore si espandono e lasciano scosse di assestamento in ogni centimetro di me, anche il più remoto.
Penso alle mie antenate, che hanno sopportato tutto questo perché non avevano alternative, penso ai loro corpi sformati e inondati di sangue, sento che un filo invisibile mi connette a loro, anche se non ho il peso di quei nove mesi sulle spalle, anche se il mio corpo è asciutto, prosciugato, intatto, non potrebbe mai ospitare la vita, riesce a malapena a resistere a questa cosa che è solo un diversivo di due ore, un passatempo, eppure in potenza potrebbe farlo.
La mia vagina il mio utero il mio basso ventre il mio sesso il mio inguine il mio grembo è tutto dilaniato e per un attimo immagino che la mia bambina esca da lì, dal mio corpo, mi sembra una cosa mostruosa e affascinante, la sua testolina insanguinata, una corda che la lega a me, è parte di me, carne della mia carne, come mi distrugge venendo sputata fuori così io le dichiaro il mio amore eterno donandole il mio dolore. Sento che il mio compagno grida il nome di nostra figlia e mi viene un brivido a pensare a quanto siamo connessi, a quanto i nostri corpi si parlino.
Penso a quando siamo andati a prendere nostra figlia nel centro per le nuove nascite e per un istante la cella dove il suo corpo si è formato mi sembra una cosa fredda, aliena, mi sembra un forno dove il mio ovulo e il suo sperma si sono uniti come gli ingredienti per una torta, farina e lievito, poco più. Mi sembra che un ingresso nella vita così violento come quello che sto provando ora sia più giusto, gettarsi nel mondo dovrebbe essere più simile a uno schiaffo e non a una carezza, dovrebbe essere una violenza e non una festa.
La poesia della nostra unione e della lacerazione delle nostre carni si dissolve quando la voce metallica annuncia che mancano trenta secondi alla fine della simulazione.
Torniamo a casa con un sorriso strano, stentiamo a guardarci negli occhi, non vogliamo parlarne per non interrompere una specie di sospensione della realtà che sentiamo pericolante. Ciò che abbiamo vissuto può essere dimenticato da un momento all’altro, come un incubo, e noi invece lo vogliamo trattenere.
Rientriamo in casa senza rompere il silenzio. Mia madre sta guardando la TV mentre nostra figlia dorme. Quella visione mi sembra appartenere a un’altra vita, il rumore del quiz televisivo che sta seguendo mi infastidisce.
Ringrazio distrattamente mia madre che ha tenuto la bambina e la caccio via di casa con una scusa mentre mi chiede com’era la grigliata vegan. Parlare con lei di qualsiasi cosa rischierebbe di portarmi fuori da quella sensazione.
Guardo mia figlia mentre dorme nella culla, quasi sentendomi in colpa per non averla sputata fuori dal mio corpo.
La prendo in braccio, sento il suo odore, osservo le sue mani minuscole.
Io e il mio compagno abbiamo un dolore muscolare diffuso. Lui decide di sedarlo con un antidolorifico, io invece dico di non avere niente e me lo tengo, il dolore muscolare, come un residuo di quel sogno che non voglio dimenticare.
Ci accoccoliamo sul divano mentre nostra figlia dorme tra le nostre braccia e scivoliamo lentamente nelle nostre vite di prima.
Attrice, drammaturga, sceneggiatrice e story editor, laureata con lode in Lettere Classiche, studia recitazione al Corso di Alta Formazione dell’Università Cattolica di Milano e poi si diploma in Drammaturgia all’Accademia Silvio D’Amico di Roma, dove, con altri ex allievi, fonda il collettivo teatrale Le Ore Piccole. Ha in attivo, tra i suoi testi, Audizione, Due addetti alle pulizie e Annunciazione, che ricevono diversi premi nazionali e internazionali (come il Premio Giovani Realtà del Teatro e la selezione tra i finalisti del Premio Hystrio Scritture di Scena) e vengono selezionati per festival e rassegne in Italia, Francia, Svizzera e Regno Unito. Nell’ottobre 2019 è tra gli autori scelti da Fabulamundi per il progetto NEON_10, tra Italia, Polonia e Romania, per sostenere i nuovi talenti della drammaturgia europea. Alcuni suoi testi sono entrati a far parte della biblioteca online di Teatroi.