Senza pelle
Voglio vivere senza pelle, pensò H.
Stesa, nuda sul letto, lasciava che la luce del sole strisciasse via dal suo corpo, una lunga scia lasciva che le si allungava sulle ginocchia nodose e il seno inesistente. Strofinò con foga le mani sul viso umido e si guardò i palmi; il sole che si ritirava le brillò per un attimo addosso e poi si spense. In pochi minuti sarebbe scivolato oltre l’orizzonte e sarebbe stato buio.
Voglio vivere senza pelle, pensò di nuovo H.
Mosse debolmente le gambe nel letto sfatto, ammassando le coperte in un cumulo scomposto sotto i suoi piedi. H. dedicò loro un’occhiata distratta, chiedendosi come qualcuno potesse trovare sensuali quelle bizzarre estremità.
Eppure a lui piacevano i piedi, i suoi piedi, e proprio in quel senso. Quando si incontravano per consumarsi, in fretta e di nascosto, nei giorni e nelle ore in cui entrambi non avevano niente di meglio da fare, passava interminabili minuti a leccare e succhiare quelle dita insolitamente lunghe e strane, mugolando di piacere.
H. non provava nulla quando lo faceva, ma non glielo aveva mai detto. Non gli aveva mai detto niente, perché la verità era che non c’era qualcosa che le piacesse per davvero. Non desiderava che la baciasse e nemmeno che la guardasse negli occhi; non le interessava se per venire più in fretta lui aveva bisogno di chiamarla troia e puttana. Non aveva desideri e non gli aveva mai chiesto nulla.
Tu cosa vuoi? Le aveva domandato lui innumerevoli volte. H. non gli aveva mai risposto: a volte si era limitata a stringersi nelle spalle; altre, per farlo stare zitto e per non dover rispondere, si era riempita la bocca dei suoi baci bagnati e dei suoi umori, saturando l’aria di mugolii e grugniti per non dover fare spazio a parole che non possedeva.
Voglio vivere senza pelle, si disse ancora una volta H., mentre lo osservava infilarsi i jeans, come se stesse rispondendo in quel momento alla domanda che lui le aveva posto centinaia di volte. Pensò a come sarebbe stato prendere il coltello che usava per tagliare il pane e avvicinarlo al proprio corpo. La lama avrebbe separato i lembi di pelle e liberato il sangue dalla sua prigione di carne, avrebbe percorso i chilometri delle sue cosce e dei suoi fianchi spigolosi e l’avrebbe spogliata di quel costume. Per un attimo immaginò che lui, al posto della lingua, avesse una lama, affilata e luccicante, e che leccandole le dita dei piedi potesse tagliarla. Con quei colpi lenti e precisi che conosceva bene le avrebbe inferto tante piccole ferite e lei avrebbe potuto afferrarne i bordi netti, piegarli di lato come petali di un fiore e lasciare che il suo corpo sanguinasse e sbocciasse da quell’involucro pallido e spesso che la proteggeva così bene dal mondo esterno.
«A cosa stai pensando?» le chiese lui, facendola sobbalzare. Si era messo di nuovo la maglietta scolorita con cui era arrivato. H. non riusciva a vederlo in viso, la stanza ormai era immersa nel buio, ma sapeva con quale espressione la stava guardando.
«Pensavo che mi sono scordata di comprare le sigarette» mentì, tornando a guardarsi i piedi. «Le ho finite.»
Lui non disse niente. Prese le chiavi e il cellulare che aveva buttato sul comodino e se li infilò in tasca, poi si passò una mano tra i capelli tagliati male.
«Ci vediamo domani?»
«Domani non ci sono» mentì ancora lei. Non voleva vederlo due giorni di fila, non voleva che le leccasse le dita di lunedì mattina.
«Allora mi chiami tu?»
«Certo.»
Lui si avvicinò e le diede un bacio a stampo, poi si allontanò.
Voglio vivere senza pelle, gli sussurrò H. mentre i passi di lui coprivano il suono sottile della sua voce.
Senza pelle forse tutto si sarebbe riversato in lei, l’ossigeno le avrebbe bruciato la carne e il dolore le avrebbe consumato le ossa.
Senza pelle lui sarebbe riuscito a toccarla per davvero.
Senza pelle sarebbe gocciolata fuori da sé e il suo sangue avrebbe bagnato il letto e le lenzuola, si sarebbe potuta riversare come vino nella bocca di lui e scendergli lentamente nella gola. Finalmente sarebbe riuscita a sfiorarlo, a sentirlo, i loro confini si sarebbero confusi e sarebbero diventati un’unica cosa. Finalmente contaminata da lui che era altro, sporca di quel mondo che le era sempre stato estraneo, l’avrebbe desiderato, detestato, avrebbe amato il suo sapore e ne sarebbe stata disgustata, si sarebbe ubriacata follemente di gioia, di agonia e di paura. Senza pelle sarebbe stata libera e avrebbe potuto finalmente provare un po’ di dolore, avrebbe avuto la certezza di essere una persona vera, una cosa viva che poteva tremare, gemere e gridare, che poteva finalmente sentire e persino decidere di lasciarsi morire…
H. sentì il rumore della porta che gli si chiudeva alle spalle. Era di nuovo sola. Guardò sul comodino e vide i contorni del pacchetto di Marlboro mezzo consumato che lui le aveva lasciato.
Simona Lazzaro è nata a Napoli nel 1992, studia psicologia e scrive per diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato due romanzi, dice di essere infestata dalle parole che non ha (ancora) scritto e che ogni pagina buttata giù per lei è come un esorcismo. Non c’è da fidarsi, è una persona bizzarra, ma se proprio non riuscite a starne alla larga, sui social la trovate come @mabatakiscrive.