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Tecniche di soffocamento

Quando lei dice che questa crisi la sta soffocando, lui pensa che sono tre i meccanismi che portano alla morte per strangolamento.

«Il locale non sta funzionando come dovrebbe,» dice lei.

Il primo è quello circolatorio. La forza esercitata sul collo è talmente forte da riuscire a occludere le carotidi e le vene giugulari, impedendo il flusso del sangue nel cervello.

«Ci ho investito tanto,» dice. «Il giro si è creato. Non come avrei sperato, ma si è creato. Poi è successo quello che sai, e abbiamo dovuto chiudere.» Prende tra pollice e indice la parte di cannuccia che esce oltre il bordo, le fa fare un giro tutto attorno al perimetro del bicchiere quasi vuoto. Sotto le luci, in quell’angolo del bar, il rosso dell’aperitivo sembra ancora più rosso. Assomiglia al colore del tramonto che vedrebbero se guardassero al di là delle vetrate del locale, oltre le file di auto che si fermano e ripartono al semaforo lungo il viale, sopra il tetto dei palazzi che ospitano uffici, banche, assicurazioni, studi di notai.

«Abbiamo dovuto chiudere, ma le tasse le devo pagare lo stesso. Devo pagare l’affitto. Devo pagare lo staff,» dice lei. Fa una smorfia e si piega a bere l’ultimo sorso.

Il secondo meccanismo è quello nervoso. La pressione stimola il nervo vago, che provoca per riflesso bradicardia e arresto cardiaco.

«Non sono abituata a chiedere una mano,» dice lei. «Ho sempre risolto da sola i miei problemi. Ma questa volta è più difficile. Per questo ho pensato di contattarti.» Sorride, cercando nell’espressione di lui qualcosa che somigli a una conferma.

Il terzo meccanismo è quello asfittico. La chiusura delle vie aree risulta non completa, così che la morte, in questi casi, sopraggiunge in tempi più lunghi.

«Beviamone un altro e poi ne parliamo a cena, va bene?» dice lui.



Un individuo adulto consuma in 24 ore circa 420 litri di ossigeno e ne espira 420 di anidride carbonica. Lui pensa a questo, mentre escono dal locale e l’odore dei gas di scarico si fa più forte e punge le narici. Lei ha la macchina in sosta in un parcheggio a una ventina di minuti a piedi da lì, dice che è scomodo andarla a prendere e poi tornare verso il ristorante, che magari lui ha altri progetti, è già tanto che abbia accettato di incontrarla dopo tutto quel tempo. Non si vedevano – da quanto? – da una di quelle cene di vecchi compagni delle superiori, n0? È quasi stupita che lui si ricordi ancora di lei, che sia stato così gentile.

«Quello che dovevo chiederti ormai lo sai,» dice lei. «Non voglio metterti fretta. Puoi pensarci. Possiamo sentirci per telefono nei prossimi giorni.»

Lui dice che non c’è problema, allunga un braccio verso lo scooter parcheggiato poco lontano. «È il mio,» dice. «Andiamo con questo e dopo cena ti riporto al parcheggio a prendere la macchina.» Il ristorante in cui intende invitarla non è poi così lontano. Dieci minuti con lo scooter, forse anche meno. Lei sente le gambe leggere per via di quello che ha bevuto. Da quanto non uscivo, si chiede?

«Non voglio disturbarti,» dice. «Magari per questa sera avevi altri progetti. Magari volevi stare con tua moglie e i tuoi figli.»

Lui fa quel sorriso che gli ha visto fare anche prima, quando ha chiesto per pura cortesia notizie sulla sua famiglia, e si sente stupida e fuori luogo. Forse ha problemi con la moglie, aveva pensato. O forse è colpa del difetto all’occhio destro: è fuori asse, punta verso l’esterno, e rende qualunque sua espressione indecifrabile. Lei si ricorda di quanto l’avevano sfottuto, per quell’occhio, al liceo. Anche allora, dopo le prese in giro, lui sorrideva mite, abbassava lo sguardo dietro gli occhiali. Pure quelli, a guardarli bene, potrebbero essere rimasti gli stessi, con le lenti spesse e squadrate.

Lui fa scivolare il laccio del casco dall’incavo dell’avambraccio alla mano. Lei lo guarda: gli occhiali, l’occhio che punta all’esterno. Il completo anonimo, la cravatta. Pensa che è come se fosse stato un impiegato di banca fin da quando era un ragazzo. Forse anche allora era una persona comprensiva e gentile come si è rivelata stasera, pensa lei. In fondo è così che va la vita: venticinque anni più tardi ti accorgi che gli sfigati hanno fatto carriera, e tu, con tutto il tuo carico di sogni, il futuro che sembrava spalancato e ricco di promesse, ti ritrovi con un locale che sta andando a picco, a chiedere soldi in prestito a quello che è quasi uno sconosciuto.

Lui fa un cenno col capo al motorino. Lei si sente dire «Va bene.»



Dietro di lui, in scooter, vede il cielo striato di rosso spegnersi poco a poco e le macchine ferme ai semafori sfilare via di lato. Lui guida in maniera precisa ma fredda – robotica, le viene da pensare – un continuo strappare e ripartire. Le sale una nausea leggera, e pensa che, se vuole bere ancora, deve mangiare qualcosa di consistente – la dieta che salta anche quella sera.

Mentre vanno, lui si volta per parlarle. Il casco gli stringe la faccia, gli spinge in alto le guance e rende ancora più grottesco l’effetto di quell’occhio sballato. Lui le racconta qualcosa, una storia orientale, le pare – un film che ha visto o un libro che ha letto, ma nel traffico le arrivano solo frasi smozzicate, tasselli di un discorso che prova a mettere insieme senza riuscirci – qualcosa su un uomo che ha trovato la sua fortuna perdendo tutto, o almeno questo le pare di capire in mezzo al vento e ai clacson e ai motori accesi.

«Non ho perso tutto,» dice lei. «Non ancora, per fortuna.»

Lui si gira e le sorride, svolta a destra. «Per darti una mano devo prima prendere una cosa a casa,» dice. Lei non risponde, pensa al sollievo di poter risolvere una cosa del genere in poche ore, una cosa insperata. Si addentrano in un quartiere di villette e bei condomini e c’è qualcosa di placido e tranquillizzante nei parchetti a quell’ora deserti, nelle luci accese dietro le finestre, tanto che le viene voglia di appoggiarsi con la fronte alla sua schiena. Scendono una rampa che porta ai garage.



Quando si riprende, quando riapre gli occhi, è come se avesse ancora le sue mani attorno al collo – sente la pressione invisibile dei pollici che spingono sul pomo d’Adamo. Ma lui non è sopra di lei. Ha tolto il telo di cellophane dal vecchio divano nell’angolo e ci si è seduto. Si è rivestito, pensa lei, e si è seduto sul divano. Sente il corpo pulsare in più punti, e sapore di ferro in bocca.

La porta del garage è aperta. Vede la rampa, e sopra la rampa il riflesso del lampione acceso lungo la strada. Sente una macchina passare. Urla.

«Non fare la matta,» dice lui, e si alza dal divano. Allunga il collo e si sistema meglio il nodo della cravatta.

Lei prova a scattare verso la porta, ma un secondo dopo sente una frustata che le attraversa il corpo. Si accorge della corda legata da un capo alla sua caviglia e dall’altro attorno alla colonna di cemento. Urla ancora.

«Questo è fare la matta,» dice lui. Dal banco da lavoro prende un grosso paio di forbici da giardino. Lei pensa che dovrebbe urlare di più, invece smette.

«Un individuo adulto consuma circa 420 litri di ossigeno e ne espira 420 di anidride carbonica. Tutti i giorni,» dice lui. Con le forbici si avvicina alla caviglia, taglia la corda. «Un meccanismo continuo,» dice. «Dovremmo pensarci più spesso.» Butta le forbici sul banco di lavoro e si siede di nuovo sul vecchio divano. Sembra stanco. «Ho accreditato la cifra che mi hai chiesto sul tuo conto,» dice.

Lei si alza da terra. Lui rimane seduto.

Lei fa due passi verso la porta. Lui rimane seduto.

Inizia a correre, pensando di sentire da un momento all’altro un colpo alla schiena. Ma non succede. Arriva al termine della rampa, esce dal cancello ed è in strada. Zoppica fino all’incrocio. Le serve qualche secondo per capire che quel fischio sottile che sente è il suo respiro. Una macchina si ferma allo stop: dentro c’è un uomo con i capelli bianchi che la guarda. Lei alza una mano. «Ho bisogno di aiuto,» dice, e nemmeno la voce le sembra più la sua.





Massimiliano Maestrello (1981) è nato in provincia di Verona. Giornalista, lavora in un service editoriale. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste, antologie e online. Del 2014 è la raccolta “Queste stanze vuote” (Edizioni La Gru). Per Zandegù sono usciti il reportage “Aldilà del tendone” e la guida ironica sull’ipocondria “Morirò, me l’ha detto Internet”.

“Tecniche di soffocamento”, un racconto di Massimiliano Maestrello per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni