Una persona amata da tutti
(Racconto tratto dalla rivista New York Tyrant di Tyrant Books.
Traduzione dall’inglese di Gabriella Ingletto.)
Immagino di aver sviluppato la mia propensione verso la biancheria di mia madre quando la fine era divenuta fin troppo certa. Mi sentivo spinto alla ricerca di qualcosa, ecco cos’era. Camminavo per la sua stanza, passavo le dita tra le collane appese sui diversi specchi. Ho fatto le valigie e me ne sono andato di casa quando non ce la facevo più a sentirla tossire.
Sono cresciuto in modo spensierato grazie alle attenzioni di mia madre. Il mio vecchio, invece, l’ho sempre considerato un fallito – non faceva che andare in giro blaterando e il suo lavoro era quello di pulire aule e svuotare spazzatura all’università. Sarebbe stato più semplice se fosse morto prima lui. Ma non era il suo modo di fare e perciò sono rimasto legato a mia madre.
In quelle sere non potevo far altro che vagare per casa sua, accendendo una sigaretta dopo l’altra. Il suo passato era sparso nel soggiorno: vecchi dischi sporchi di polvere o di residui di chewing gum, ricevute cadute dal mucchio, t-shirt arancioni e rosse di vari college ormai sbiadite, bottiglie di vino francese vuote e occhiali da sole di cui andava orgogliosa fin da quando io ero piccolo.
È stato solo diverse settimane dopo la sua morte che ho iniziato a rovistare tra i suoi cassetti. Ovunque avesse vissuto, mia madre era riuscita a dare un suo tocco personale a ogni spazio, ornandolo con decorazioni di pizzo e vetro che ti portavano a camminare in punta di piedi. Nelle visite precedenti avevo tenuto lontano le mie rozze abitudini. Scatarravo, sputavo e ruttavo in macchina mentre raccoglievo le sue medicine. Ora non sento più questa necessità. Tutto quello che mi portava a urlare e affermare il mio modo d’essere è svanito, in modo pacato, come se non ci fosse mai stato.
La gente è cattiva, mi dico. È quel che diceva mia madre. Suo padre era cattivo e per questo lei fuggì via. Nei dieci anni successivi era riuscita a terminare i suoi studi, mentre io, irrequieto e piagnucoloso, stavo tra le braccia della mia non-vera-zia Lila e guardavo. Guardavo mia madre uscire di casa la mattina molto prima dell’alba per insegnare, studiare, insegnare, studiare. Erano Lila e mia nonna che badavano a me e passavamo tutto il giorno nel cortile di casa in compagnia di alcuni cuccioli. Sono cresciuto circondato da donne. Donne: i loro occhi avevano un colore che li rendeva meravigliosi, i loro capelli erano tirati su come in un urlo d’orrore della pelle. Adoro queste donne.
Non sono un artista, lo giuro. Non posso nemmeno dire di soffrire veramente. Ho solo dei ripensamenti.
Mi intrufolo come un intruso – sono un intruso – un gesto che una madre troverebbe tanto deplorevole. Apro il cassetto di un comò di legno scuro ed eccola lì: una distesa dai colori rosa e bianco, avorio e giallo. Capi di seta, merletti, coperte, morbidi asciugamani. Prendo un mucchio di biancheria pulita e la getto con gioia sul letto. Poi, invece di tuffarmi di schiena senza guardare, mi lascio cadere in avanti, finendo con il viso tra la biancheria e, per la prima volta da quando lei se n’è andata, riesco a dormire.
Dopo alcune settimane, mi ritrovo ad avere una fastidiosa discussione con Sissy.
«Non ho combinato nulla, Sissy. Tu non hai mai conosciuto la mamma come l’ho conosciuta io. Si dedicava anima e corpo agli altri, in modo straordinario. Ha fatto tutto quello che doveva fare.»
«Hai parlato con qualcun altro oltre a me da quando lei è morta?»
«Ho fatto quello che potevo.»
Non ce la faccio a parlare con Sissy.
Ci sono cose che facciamo per sentirci meno morti. Io indosso un suo vestito. La mia testa gira. Amo mia madre. Mia madre piena di luce, in piedi, mano nella mano con me. Mia madre che mi abbraccia sotto la pioggia, mentre assistiamo alla disgregazione della nostra famiglia. Mia madre truccata, con indosso i suoi gioielli, mia madre ricoperta d’oro. Mia madre che si spoglia tra un vestito e l’altro. Mia madre abbronzata con un costume a pois che fluttua libera nell’acqua. Mia madre e mio padre che dividono delle birre in macchina e noi, scottati dal sole, che ci annoiamo mentre aspettiamo.
Il giorno successivo alla morte di mia madre mi sono ritrovato in una stanza in cui mi venivano fatte delle domande. Volevo vomitare. Avrei voluto vedere mia madre ancora viva per poterla conoscere. Avrei voluto chiederle ogni cosa riguardo a ogni singolo giorno della sua vita per sentirmi completo.
Passeggio avanti e indietro sul parquet in vestaglia e gabardina e guardo i giorni passare. Rispondo alla posta di mia madre. Mi ritocco il trucco guardandomi negli specchi di mia madre mentre ascolto i suoi dischi. Indosso la biancheria di mia madre e osservo le macchie presenti sul mio corpo e la mia calvizie negli specchi che mia madre ha lasciato sparsi in giro e mi sento un tutt’uno con lei. Fumo una sigaretta dopo l’altra, guardo la televisione, mi riempio di cibo, sento il tessuto dei suoi indumenti allungarsi e lacerarsi mentre sono sul divano e sono tranquillo, una luce dorata risplende negli occhi di mia madre.
Leggi il racconto in lingua originale qui: http://magazine.nytyrant.com/everybodys-darling-grant-maierhofer/