L’ultimo cinema sul pianeta Terra
Sotto l’insegna ancora spenta c’era una ragazza con un braccio solo. L’uomo la notò dal fondo della via e si fermò a osservarla. Da quanto tempo non incontrava una persona giovane allo spettacolo del pomeriggio? Anni prima capitava ancora qualche coppietta, liceali che cercavano il buio dell’ultima fila – tutto finito, i ragazzi avevano dimenticato l’esistenza di quel cinema, o forse non avevano più bisogno di nascondersi per amarsi.
Come sempre lui aveva il fiatone, arrancava sotto il suo stesso peso. Si avvicinò piano, come per non farsi notare, protetto dalla fila d’auto parcheggiate; molte, grigie di polvere e con le gomme a terra, non sarebbero più ripartite. Mentre nel resto della città sbocciavano i segni della primavera, in quella strada senza uscita ristagnava un odore d’acqua ferma e foglie morte, un autunno senza fine che nessuno avrebbe spazzato via. Finalmente arrivò quasi di fronte alla ragazza, ma non osò attraversare la carreggiata che li divideva, né lei sembrò accorgersi di lui.
Iniziarono ad arrivare gli altri spettatori, una manciata di vedovi e vecchiette del quartiere, teste bianche e cappotti dagli orli consumati. Uno alla volta raggiungevano la serranda chiusa e attendevano con le mani in tasca: si conoscevano tutti, ma non si parlavano né si scambiavano occhiate, ciascuno chiuso nella propria solitudine.
Lui ricordò un mutilato che aveva conosciuto: portava maglioni e giacche con una manica sola, l’altra se la faceva tagliare e cucire alla spalla. Il giaccone della ragazza, invece, aveva entrambe le maniche, e la sinistra oscillava inerte nella brezza. Perché si portava dietro quel vuoto? Forse credeva di nascondere ciò che le mancava, invece finiva per sottolinearlo. Oppure era un modo per nascondersi – voleva sparire in quei vestiti di almeno due taglie troppo larghi per un corpo che lui immaginò ossuto.
Lei frugò nella borsetta, estrasse una sigaretta e se la portò alle labbra. Allora lui si decise: mosse qualche passo avanti e le tese l’accendino. La ragazza se ne accorse solo all’ultimo, e forse per questo si ritrasse con un tremito. L’uomo non la biasimò. Conosceva il suo aspetto, il viso gonfio, gli occhi spenti e iniettati di sangue. Sapeva di avere addosso un odore di chiuso, quello di una stanza dalle finestre che non apriva più. Non voleva che la luce si posasse sugli scaffali polverosi, dove non c’era più niente da vendere. Si tirò indietro.
La ragazza non gli sorrise e abbassò lo sguardo. Fu come se niente fosse mai successo, come se l’avesse cancellato. Si accese la sigaretta da sola, e all’uomo sembrò un gesto così aggraziato, e si disse che la sua offerta era stata goffa, una vera offesa, perché lei, con una sola mano, poteva fare qualsiasi cosa, forse perfino sedersi al pianoforte e suonare tutte le note udibili dall’orecchio umano.
Poi si sentì uno stridore, come di unghie contro una lavagna: la saracinesca saliva. Le luci del botteghino si accesero, gli anziani iniziarono a trascinarsi verso l’atrio. La ragazza controllò l’orologio, fumò fino a consumare la sigaretta e solo allora andò verso l’ingresso. Camminando pendeva da un lato, come piegata da un peso che non c’era. Lui dovette trattenersi dal raccogliere il mozzicone che aveva buttato a terra, segnato dal suo rossetto. La guardava allontanarsi e gli sembrava di fissare una ferita aperta. La seguì.
L’ingresso puzzava d’umidità, di un freddo che l’antica pompa di calore avrebbe impiegato ore a soffiare via. Le luci del piccolo bar erano spente e il frigo delle bibite vuoto. Incorniciata accanto alla cassa, una foto in bianco e nero: soldati affollavano la sala, si affacciavano sorridenti dal parapetto della balconata; in galleria molti addirittura restavano in piedi, la spalla contro la parete, le mani affondate nelle tasche. Non era difficile immaginare il loro chiasso, il puzzo delle uniformi, il fumo delle sigarette americane che si addensava contro il soffitto, mentre fuori le macerie dei palazzi bombardati erano ancora tiepide. Quando venne il suo turno, lui pagò e prese il biglietto senza guardare in faccia chi glielo staccava.
La sala era scavata sotto il livello della strada – cadeva a pezzi. La balconata era chiusa da anni, e le pareti bianche e blu ricordavano un’officina meccanica. Decenni di sudore avevano annerito gli schienali delle poltrone, tutti di legno, senza cuscini. Sui braccioli erano incisi l’uno sopra l’altro nomi di amanti, bestemmie e semplici sfregi. Lui si guardò intorno e contò gli altri spettatori, cinque, inclusa la ragazza, sparsi negli angoli più disparati; unendo quei punti si sarebbe ottenuta una stella deforme. Lei sedeva in prima fila, così vicina allo schermo, come se volesse piombarci dentro. Si voltò e incontrò il suo sguardo. Aveva paura? Temeva che si sedesse accanto a lei? Ma lui prese il suo solito posto centrale, quattro file più indietro, lontano da tutti.
L’attesa del buio gli sembrò interminabile. Intorno c’erano colpi di tosse e fruscii, i rantoli degli ultimi adepti di una religione morente. I loro dei se n’erano andati, e in pochi continuavano a trascinarsi fino al tempio sotterraneo, a ripetere il rituale. Cosa c’entrava con loro la ragazza? Lui continuava a pensare alla sigaretta tra le sue labbra, al suo approccio goffo. Si vergognava come se al posto dell’accendino le avesse offerto un coltello o il suo cazzo eretto. Eppure cos’aveva fatto di male? Si era allontanato dalla vita tanto da non poter nemmeno desiderare di riavvicinarsi?
Finalmente le luci si spensero, e un ronzio meccanico, come il decollo di un vecchio aeroplano, riempì la sala. A quel punto, come sempre, la sua vita si dissolse nel nero. Tutti i suoi pensieri vennero incanalati dal fascio di luce che si allargava nella tenebra, fendeva la caligine e colpiva lo schermo. L’immagine sfarfallava. Fuori il mondo si era convertito al digitale, ma qui, nell’oscurità della cabina di proiezione, mani senza volto si ostinavano a caricare le bobine su un proiettore a carboni Prevost del 1945. La pellicola era sempre esausta, segnata da tanta polvere e graffi, come se avesse già attraversato l’intero circuito nazionale e questa fosse l’ultima tappa prima del macero.
Di solito i film erano commedie doppiate male o storie di supereroi, documentari da due soldi e, una o due volte l’anno, un capolavoro che nessuno conosceva e che pochi avrebbero ricordato. Oggi invece c’era una riedizione, un classico che lui aveva visto in un’altra sala, una vita fa. Non faceva differenza. Aveva visto così tanti film che, nei suoi ricordi, tutti sfumavano l’uno nell’altro. Non c’erano più primi piani e paesaggi, svanivano gli inseguimenti d’auto e le astronavi, i dialoghi si facevano suono e la musica silenzio. Restava il gioco della luce, la variazione della sua frequenza, un ritmo di ombre e di colori. Il colore stesso, ricordò vagamente, non era una proprietà dell’oggetto, ma della luce. Non era così per tutto? Lo spazio, il tempo, l’armonia di un corpo, l’impressione lasciata da un sogno, non erano tutte, dalla prima all’ultima, proprietà della luce?
Qualcosa lo distrasse dal film, e fu come riscuotersi da un sonno pesante. Quanto tempo era passato, cos’era successo nella storia? Non ne aveva idea. Ma sentiva dei lamenti del buio, come un singhiozzo soffocato. Quattro file avanti a sé, distinse la silhouette della ragazza. La sua testa era china, tremava piano. Stava piangendo. Lui disse che forse si era commossa, in altri tempi la gente veniva al cinema per piangere. Cercò di ignorarla, tornò a fissare lo schermo: un uomo e una donna, mano nella mano, volavano sopra un paesaggio indecifrabile, un deserto dalle tinte dell’arcobaleno. Gli sembrò un’idiozia – niente per cui piangere, comunque. E del resto, la ragazza non smetteva, continuò a singhiozzare piano anche quando la scena cambiò.
Lui ripensò al rossetto, alle unghie curate, all’anticipo con cui era arrivata davanti al cinema. Si sentì un idiota per non averlo pensato prima. Per dio sa quanto tempo lei aveva aspettato qualcuno, qualcuno che non sarebbe mai arrivato. E al suo posto si era presentato lui, il suo ammasso di carne cadente, un accendino teso in una mano color gesso. Ora sedeva sull’orlo della poltrona, aveva in pugno un pacchetto di fazzoletti di carta, li stringeva fino a stritolarli. Voleva andare da lei, porgergliene uno – senza secondi fini, davvero – e non riusciva ad alzarsi.
Poi successe. Capitava piuttosto spesso, negli ultimi tempi, forse per l’anzianità del proiettore. Lo sfarfallio dell’immagine si accentuò fino a renderla illeggibile, poi le voci degli attori si deformarono in una nota baritonale, i bordi traforati della pellicola scorsero sullo schermo, infine il silenzio, il vuoto. Dai quattro spettatori si alzarono proteste più o meno fioche, le luci rimasero spente, nessuno si muoveva. Lui colse l’occasione per allontanarsi a lunghe falcate, salì le scale due gradini alla volta. Raggiunse la porta a vetri e guardò la strada: si era alzato il vento, le foglie morte tornavano a volare. Aveva già una mano sulla maniglia, era pronto ad andarsene senza voltarsi indietro, quando si accorse di avere ancora in mano i fazzoletti. Li mise in tasca e tornò verso la biglietteria.
Quando scese di nuovo nella sala le luci erano accese e c’era un odore diverso. Non se ne accorse subito, anzi, ebbe il tempo di tornare al suo posto, prima di farci caso. Una sigaretta. Era stata la ragazza ad accendersela, soffiava il fumo dritto contro lo schermo. Lui riusciva a vedere solo la sua nuca, le dita sottili e strette intorno al filtro. Aveva smesso di piangere.
«Signorina! Signorina!» gracchiava una vecchia alle sue spalle. La ragazza la ignorò.
La proiezione riprese, calò di nuovo il buio. Lui provò una specie di vertigine. Pensò agli altri cinema della città, i due rimasti in centro, i multiplex nei centri commerciali, e quelli più lontani, dall’altra parte dell’oceano, in ogni angolo del pianeta, teatri in forma di pagoda e di tempio cinese, anfiteatri all’aperto e salette clandestine piene di uomini seduti a terra, schermi tripli e schermi curvi, un lenzuolo steso contro il muro di un garage – milioni di stanze in cui, per più di un secolo, miliardi di uomini si erano riuniti per condividere gli stessi sogni. E gli sembrò che tutte quelle sale stessero morendo, che ovunque le luci si spegnessero e i manifesti venissero staccati dai tabelloni, e i proiettori non avevano più lampade, gli schermi erano spenti e squarciati, tutti tranne quello che aveva davanti. Sedeva nell’ultimo cinema del pianeta Terra, davanti all’ultimo spettacolo di sempre, e non lo guardava nemmeno.
Affondato nella poltrona, fissava un punto verso l’alto, là dove il fascio di luce incontrava le volute di fumo che scintillavano come argento. Non voleva vedere altro. Alle sue spalle la vecchia si alzava borbottando, i suoi passi battevano come martelli nel corridoio. Presto la maschera sarebbe scesa con una torcia, presto avrebbe costretto la ragazza a smettere. Ma per il momento lui poteva continuare a guardare, a respirare quel fumo che aveva carezzato le sue labbra.
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Elia Gonella è nato ad Arzignano (VI) nel 1987. Vive a Milano, dove lavora come sceneggiatore per il cinema e la televisione. Ha pubblicato tre romanzi e racconti su Linus, Carie, Effe, Motherboard Italia, Settepagine, Lumière racconti, Reader for Blind, La nuova carne, CrapulaClub. Il suo libro più recente è Tenebre (Las Vegas edizioni), raccolta di racconti notturni.
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