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illustrazione Un anno, ancora - Giuseppe Tursi - SPLIT - Pidgin Edizioni

Un anno, ancora

È mattino. Non ho dormito per tutta la notte. Ogni volta che chiudo i miei occhi, rivedo i suoi di occhi. I miei vestiti gettati sulla sedia puzzano di vomito. La mia camera è trafitta da raggi di sole e sa di vomito e sudore. Ieri sera, dopo tutto quello che è successo, siamo andati al bar a festeggiare. Abbiamo bevuto e fumato. Romano continuava a ripetere che deve ancora nascere chi riesce a prenderlo per il culo, rideva sguaiato, toccava e sbavava su Camilla.

Quando vado in sala vedo mio padre sdraiato sul divano che guarda la televisione. Bè, mi dice, cazzo fai ancora qui. Gli potrei fare la stessa domanda, dato che sono le otto passate e non è al lavoro. Avrà chiamato il dottore e si sarà fatto dare qualche giorno di mutua per un finto mal di testa, o mal di schiena. Lo fa almeno una volta al mese. Sto uscendo adesso, gli dico, mi sono svegliato tardi. Gira lo sguardo verso la televisione e non dice più niente. Gli guardo i piedi deformi, le mani tozze con il dorso peloso, le gambe storte, gli occhi piccoli e ottusi – gli sarebbe servito lo stesso trattamento che abbiamo riservato a Samir.

Scendo di casa e di fronte al palazzo seduto su una panchina c’è Volpe. Quando mi vede alza una mano. Cammino verso di lui e nell’aria sento puzza di bruciato, puzza di capelli bruciati, puzza di pelle bruciata, puzza di palle bruciate. Volpe ha gli occhi a mezz’asta e sta fumando. Vuoi un tiro, mi chiede porgendomi la canna infilata tra indice e medio. Gli dico di sì. Aspiro fino a sentire i polmoni infiammarsi, mi sento meglio. Ci avviamo verso scuola. Mancano pochi giorni alla fine della quarta superiore. Se vengo promosso, l’anno prossimo sarà l’ultimo anno che passo qui. Dopo voglio andare a Londra, come ha fatto Saverio, mio cugino. Fa il cameriere in un ristorante italiano. Dice che il suo capo è italiano e lo tratta peggio di un cane. Dice che le ragazze sono disponibili, non come le italiane. Anche io ci voglio andare. Magari poi mi apro un ristorante e mi sposo con una ragazza inglese.

Che fine hai fatto ieri, ti aspettavo alla baracchina? Mi chiede Volpe mentre si rolla un’altra canna.

Avevo da fare, sono uscito con Romano e gli altri, siamo andati al bar Minerva.

Me lo potevi dire, ti raggiungevo.

Lo sai che gli altri non vogliono.

Volpe aspira una grossa boccata di fumo e guarda l’asfalto. Osservo i suoi occhi, assomigliano a quelli tristi e spaventati di Samir.



Busso alla porta, la professoressa Giuliani di matematica interrompe la spiegazione alla lavagna, sempre in ritardo voi due, dice. Ci scusi prof, sbiascica Volpe, c’è stato un brutto incidente in via Piave e abbiamo prestato soccorso alle vittime. Volpe se ne esce sempre con queste stronzate. Volpe, ti credi furbo, adesso vi prendete una bella nota e andate dal preside. Anzi potete già iniziare ad andare.

Usciamo, prossima volta che ti inventi un’altra cagata ti strappo la lingua e te la faccio ingoiare, dico mentre cammino. Volpe si guarda la punta delle scarpe e non dice niente.

Il corridoio è deserto. Sul davanzale, in fondo, sono appollaiati due merli. Sentono i nostri passi. Si voltano verso di noi. Spiccano un balzo e atterrano sul pavimento. In bocca hanno qualcosa, forse una preda. Dischiudono i becchi e lasciano rotolare per terra due occhi. Li riconosco, sono quelli di Samir. Sono marroni e lucidi, come se avessero appena smesso di piangere. Volpe si guarda la punta delle scarpe e non si accorge di nulla. Siamo a pochi passi da loro. I merli riprendono i bulbi oculari nel becco e volano via dalla finestra.

Il preside ci accoglie nel suo ufficio con il sorriso stampato sul volto. Indossa una camicia bianca e una giacca scura che gli mettono in risalto l’abbronzatura. Assomiglia a Richard Gere. Sarebbe piaciuto a mia madre. Lei non si perdeva mai un film di Richard Gere. Ogni volta che lo vedeva diceva che uomo, com’è bello, com’è sensuale, guarda invece con chi sono costretta a stare io, un animale, nullafacente, sempre su quel divano. E mio padre ascoltava, ma non rispondeva e guardava la televisione.

Cosa avete combinato voi due? Ci chiede il preside, parla a denti stretti per non perdere il suo sorriso. Siamo arrivati in ritardo, rispondo. Un fascio di luce entra dalla finestra e colpisce il preside. La sua pelle diventa più scura, a poco a poco diventa nera. La stanza inizia a puzzare di bruciato.

Tutto qua?

Tutto qua, rispondo.

Potete andare.

Volpe e io ci alziamo dalla sedia. Ormai dell’uomo abbronzato è rimasto solo una carcassa carbonizzata e sorridente. Usciamo dalla stanza. Respiro.

Dopo scuola Volpe va ad aiutare suo padre nell’officina di famiglia, lì ci lavorano suo fratello e suo zio. Io vado alla baracchina di zio Peppe. Zio Peppe fa i panini più buoni del paese. C’è sempre fila da lui. Quando arrivo ci sono almeno venti ragazzi davanti a me. Aspetto il mio turno sotto il sole caldo. Una ragazza dietro di me parla con la sua amica. Hai sentito, le dice, dicono che è scomparso un ragazzo che frequenta il liceo, si chiama Samir. Si ho sentito, lo stanno cercando da ieri notte.

Non lo troveranno mai, penso. Siamo stati bravi ieri sera, abbiamo fatto un bel lavoro. Mia madre me lo diceva sempre, quando fai un lavoro lo devi fare subito bene, se no poi ti tocca farlo due volte e perdi tempo. Non prendere esempio da tuo padre. Una delle volte che lo disse, mio padre si alzò dal divano, andò verso di lei. Adesso mi hai rotto il cazzo, le disse. La spinse a terra e si sedette sopra il suo sterno. Le diede un pugno in faccia, poi un altro. Io guardavo dall’angolo della cucina e piangevo. Mia madre piangeva, ma senza emettere suoni. Mio padre urlava, mi hai rotto il cazzo, mi hai rotto il cazzo. Poi si alzò e si stese sul divano. Mia madre si lavò la faccia insanguinata. Il giorno dopo trovai un suo bigliettino sul tavolo della cucina e non la rivedemmo mai più.

Prendo il mio panino con salsiccia e maionese e vado a mangiarlo sul greto del fiume. Ormai della massa d’acqua impetuosa di questo inverno è rimasto solo un rivolo che procede stancamente verso il mare. Do un morso al panino e soffermo il mio sguardo sulla superficie piatta. In mezzo ai rami che beccheggiano sull’acqua lo vedo. È il corpo di Samir. La sua faccia è rivolta verso la melma del fondo del fiume. Uccelli scuri e grossi si appoggiano sulla sua schiena carbonizzata. Iniziano a beccarlo, a strappargli brandelli di carne. Pranzano anche loro.

Finisco il panino e torno a casa. Apro la porta e vedo mio padre sul divano, ha gli occhi chiusi. Un sibilo prolungato esce dalla sua bocca semi aperta. La televisione è accesa. Vado in cucina e prendo il coltello. È il momento buono. Voglio aprirgli uno squarcio nella gola, come fosse un’altra bocca. Quando sto per effettuare l’incisione inizia l’edizione straordinaria del telegiornale. Un uomo, impegnato in una battuta di caccia, ha scoperto un corpo semicarbonizzato e ha dato subito l’allarme alla guardia forestale. Il corpo sarà sottoposto a un’autopsia e al test del DNA. La zona viene inquadrata dall’alto da un elicottero.

Riappoggio il coltello in cucina e vado nella mia camera.

Metto le cuffie e faccio partire la musica. Guardo il soffitto costellato da macchie di muffa. L’anno prossimo dopo la scuola me ne andrò. Manca solo un anno.

Chiudo gli occhi.

Samir mi guarda, mi implora di liberarlo. Lo tengo per un braccio, dall’altra parte c’è Danilo. Romano è difronte a Samir e impugna la mazza da baseball. Gliel’ha regalata suo fratello quando è tornato dal viaggio di nozze in America. Samir piange. Mi chiede di liberarlo. Aiutami, mi supplica. Romano lascia partire la mazza sul volto di Samir. Rumore sordo. Sangue dappertutto. Samir ha la testa che gli pende sul petto. Romano dice: così impari a non pagarmi, e lascia partire un altro colpo. Samir rimane disteso a terra, immobile. Romano lo colpisce ancora, lo vuoi il fumo adesso, lo vuoi il fumo adesso, urla, la sua voce riecheggia nel bosco. Romano cosparge di benzina il corpo immobile di Samir, prende un fiammifero e gli dà fuoco. Scappiamo. L’aria è irrespirabile. L’anno prossimo sarò lontano, magari a Londra, mi dico. Corro veloce. Un anno, ancora.






Giuseppe Tursi è nato a Bari nel 1988, ma è cresciuto a Bologna. Nella vita fa l’operaio, coltivando la passione per la lettura e la scrittura. Ha pubblicato, o sono in corso di pubblicazione, racconti sulle riviste Blam, Pastrengo e Salmace. Collabora con il sito Thrillernord.it

illustrazione Un anno, ancora - Giuseppe Tursi - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Un anno, ancora”, un racconto di Giuseppe Tursi per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni