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illustrazione Un Natale etiope - Davide Galipò - SPLIT - Pidgin Edizioni

Un Natale etiope

L’eroe nazionalpopolare sovrasta il grande schermo della sala 2 del Multicineplex in centro. Gargarizza battute sull’immigrazione tentando una blanda critica sociale, che per lo più piace ai razzisti con la coscienza sporca (quelli che vanno al cinema una volta l’anno, di solito a Natale, pensando di essere loro quelli con la mente aperta – tolleranti – e proprio per questo invisi all’altra parte del paese, populista e übernazionalista). Nel terrore sibillino di apparire “buonista,” Pasquale si schiarisce la voce, tentando di darsi un tono:

«Ma perché mi hai portato a vede’ ‘sto cretino pugliese?»

«Guarda che è una robba,» mormora Lucia ruotando la mano di 40° vicino all’orecchio – o almeno crede che lo faccia, nel buio della sala.

Pasquale spinge la fila di gambe per raggiungere gli ultimi due posti rimasti nella navata principale, in fondo al centro. Il pubblico del cinema nazionalpopolare bofonchia bestemmie e impreca ai santi, ma bisogna farci l’abitudine: questa è la pancia del Paese. Ora ci siamo quasi, ci siamo quasi, immagina di venire spinto attraverso lo stretto colon della balena di Collodi e defecato dall’orifizio dell’enorme mammifero (gigantesco, ma pur sempre un buco del culo) in mezzo ai banchi di lische di pesce e di alghe impastate sul fondo del canale di Sicilia, quello concimato dai corpi di cui non conoscerai mai il nome, sono numeri non persone, li senti elencare alla televisione e sei stanco di ricordare le facce – si somigliano tutte e poi i pesci devono pur mangiare e l’Italia è il Paese che tutti amano, no? «Ora fammi passare o giuro suddio che ti corco come ha fatto tu’ padre il giorno della prima comunione quando hai vomitato l’ostia, tu’ zia conserva ancora la foto per metterti in imbarazzo davanti a tu’ moglie le rare volte in cui la porti a casa, ve’?»

Finalmente Lucia raggiunge l’agognata poltroncina rossa: «E fammi passare!» «Che modi!» «Certa gente dovrebbe starsene a casa a guardarsi le serie in TV!»

Checco scende sornione, sul maxischermo in 16:9, dal fuoristrada. Stuzzicadenti in bocca, lui e i suoi amici indossano Stetson da finti conquistadores – villici, ma pur sempre coloniali – tute beige e giacche verdi militare. Sullo sfondo, un deserto di cartone raccattato nei peggiori magazzini di Cinecittà. In sottofondo, una colonna sonora di archi enfatizza l’ingresso dell’eroe nazionalpopolare, bello come il sole a mezzogiorno.

«Ma che…» Lucia è già pronta a zittire Pasquale, sia mai si perdesse qualcosa di questo gran capolavoro neorealista. «Ssssh, fammi seguire.»

La ragazza etiope – agghindata secondo la moda locale o di un fantasioso costumista che, comunque, ha viaggiato poco – carica di pendagli e grossi anelli che le fuoriescono dal naso, dalle orecchie, per poi contornarle il collo, porta bianchi tatuaggi dalla fronte al naso (che in questo modo sembra quasi assente) e si esibisce in una danza concupiscente che fa tintinnare i suoi gioielli d’ottone, i campanelli attorno alle caviglie fanno eco alle parole – piccoli versi squillanti – ai movimenti tribali che scuotono il culo e i fianchi, il piccolo seno coperto da una fascia di stoffa annodata davanti, il ventre ancora indelibato. Danza per gaudio dell’uomo bianco, incurante del senso di quei gesti e quei canti, convinto com’è che la giovane donna sia lì solamente per il suo fascino latino, ignorando che invece sta abboccando all’esca succulenta come l’ultimo boccalone di fronte a un menù turistico. Checco ride, fa segno d’intesa ai suoi con l’indice sporco di grasso di jeep sotto l’occhio, mima le forme della giovane in segno d’abbondanza, ne ripercorre la silhouette e batte le mani a tempo, «Eh! Eh! Eh!» gli fanno coro gli altri due che, ipnotizzati dall’erotismo della giovane, la seguono su per le colline di quelle valli portentose in fila indiana, fin dentro la foresta, dove una natura ancora vergine fa grande sfoggio di tutta la sua magnifica eloquenza e dove si può ancora ascoltare il canto degli uccelli in amore.

«Dove si va?» domanda il meno poetico dei tre, guardandosi le spalle.

«Che t’importa, balla!» lo riprende Checco, sempre battendo le mani.

«Vabbè, tanto s’è capito quanto sei ingrifato!»

La giovane allarga le braccia ed esplode in un richiamo gutturale (come i gridi di guerra delle amazzoni quando montano a cavallo). Dalla capanna a fianco esce la madre, lo sguardo severo ma bonario accoglie i nuovi visitatori. Il portamento regale, con la testa poggiata sul lungo collo, i capelli intrecciati in una corona di legno intagliato, le danno l’aspetto di una regina. Porge su un vassoio una bottiglia di Tej – che viene versato in bicchieri di vetro e offerto agli italiani.

Checco trangugia la bevanda gialla in un unico sorso e si pulisce la bocca. Gli altri due fanno lo stesso. La ragazza rimane in disparte a guardarli mentre oscene voglie le piombano addosso.

«Allora, chi va per primo?»

«Io quella grande, tu quella piccola?» starnazza Checco, fregandosi le mani.

Il pubblico del cinema nazionalpopolare ride complice alla battuta. La mano di Lucia cerca quella di Pasquale ma quella di Pasquale l’abbandona.

«Madonna, che schifezza!»

«Ma guarda che chill’ ha studiato pe’ apparì ignorante!»

«Se, se…»

«Sssssh!» sibilano gli altri intenditori dalle file dietro.

L’indice della madre punta proprio Checco. Lui si toglie il cappello in segno di rispetto e si aggiusta i pochi capelli con un pettine da taschino, aggiungendo al quadretto esotico un tocco di comicità slapstick.

Il pubblico nazionalpopolare ride ancora più forte.

«Vabbè, allora io vado!» si impettisce Checco. «Vai, vai» lo incoraggiano i compari. «E mi raccomando, lasciane un po’ anche per noi!»

Checco sparisce tra le tende all’ingresso della capanna, seguito dalla regina. Gli altri due italiani rimasti si avvicinano alla ragazza ammiccanti.

«Allora, lupacchiotta… Che si fa mentre tua madre non c’è?»

Nel successivo primo piano la giovane etiope sorride – un sorriso carico di umano disprezzo – i tatuaggi d’avorio fanno contrasto sulla pelle bruna.

«E non dimenticarti di me,» dice l’altro, allungandole un braccio intorno alla vita. «Voglio proprio vedere come balli l’alligalli!» La ragazza guarda in alto, le nubi si diramano nel cielo. Un urlo tremendo proveniente dalla capanna interrompe l’approccio. «AAAAAAAH!»

L’italiano molla la presa. «È Checco!»

I due italiani estraggono gli smartphone. «Stiamo riprendendo tutto! Vi denunceremo alle autorità competenti!»

La ragazza etiope comincia a ridere, stavolta di gusto.

«Non c’è un cazzo da ridere, troia! Dimmi subito dov’è finito Checco o chiamo l’ambasciata. Hai capito?»

La tenda si scosta, ne esce la regina seguita da altre tre guerriere armate di lunghe lance, che subito circondano i due italiani, che indietreggiano impauriti.

«INDIETRO!» urla l’italiano. «INDIETRO O VI AMMAZZO, MALEDETTE CAGNE!»

D’un tratto le teste vacillano e i due uomini si sentono presi dal sonno, le braccia molli lungo i fianchi, e cadono al suolo, le orbite bianche ribaltate all’indietro. Le guerriere abbassano le lance e sequestrano gli smartphone, brindando con gli stessi bicchieri nei quali era stato servito il Tej agli stranieri.

Dissolvenza al nero.

L’italiano apre gli occhi e vede il soffitto di paglia all’interno della capanna. L’aria è rarefatta e pregna di fumo, respira a fatica. Si volta di scatto alla sua sinistra: la soggettiva in movimento mostra la testa mozzata di Checco impalata su una lancia piantata al terreno. La bocca ancora spalancata nell’urlo di terrore. Il battito accelera e il respiro si fa sempre più grave. Guardandosi i polsi, scopre di essere ammanettato su un piano di legno inclinato.

Gli occhi della regina incontrano i suoi. L’italiano non regge il confronto, “ora vi faccio vedere come muore un vero patriota,” pensa tra sé, ma guardandosi le braghe bagnate capisce di essersi pisciato addosso, allora prova a urlare, ma viene zittito da un panno imbevuto di alcool. «No! No! Mmmmh!»

La giovane principessa, tolto il trucco e i pendagli, ora sembra molto più piccola di quanto non lasciasse intendere prima. Passa alla regina un grande coltello affilato, che viene lasciato ad arroventarsi tra le fiamme del falò al centro della capanna.

L’italiano si sente di nuovo mancare. Lotta contro il caldo e la spossatezza per mantenere gli occhi aperti, appena sostenuti dal ritmo serrato dei tamburi che le guerriere suonano senza sosta. Lo strumento per l’operazione è pronto, adesso. La regina mostra il coltello incandescente all’italiano e incide la carne dallo sterno all’addome. L’italiano si contorce forsennato, poi, non riuscendo a reggere il dolore, perde nuovamente i sensi. La principessa estrae l’intestino dal ventre aperto e lo ripulisce dal sangue nero. Il ritmo dei tamburi aumenta d’intensità. Gli occhi della regina brillano di una luce intensa. Si volta verso le altre sue figlie e gli fa cenno di avvicinarsi. Le donne si piegano sul corpo inerme dell’italiano e si cibano degli organi, addentando prima il fegato, poi la milza, il cuore, i polmoni. Strappano a morsi lembi di pelle, le fauci disperse nell’antico rito cannibale. La testa di Checco, in particolare, assume dall’ultima inquadratura una posa diversa, quasi statuaria. Ora tocca all’altro italiano.

Lucia sente un liquido viscoso e puzzolente inondarle i piedi, che ritrae subito, schifata. “Incredibili questi effetti,” si dice, poi realizza dall’olezzo che si tratta del vomito del signore davanti a lei, che non avendo più spazio nella vasca dei popcorn sta rigettando il resto del cenone di Natale direttamente a terra, senza prendersi nemmeno la briga di alzarsi e andare in bagno.

Si accendono le luci in sala. Il pubblico del cinema nazionalpopolare rimane zitto. Pasquale si volta verso Lucia. Lei sorride: un sorriso di umano disprezzo.





Davide Galipò è una persona gravemente disturbata, ma finge sia lotta di classe.

illustrazione Un Natale etiope - Davide Galipò - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Un Natale etiope”, un racconto di Davide Galipò per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni