Uomo in completo di poliestere
Fuori da scuola Carlo si avvicina e mi chiede se ho cinque minuti per lui. “Anche tutta la notte” vorrei rispondergli. Mentre parla mi perdo sulle sue labbra e smetto di essere sorda solo quando nomina Francesca: “Scusami, dicevi?”. “Ti ho chiesto se tua figlia ti ha detto qualcosa di ieri pomeriggio?”. Faccio no con la testa. “Quando le ragazze sono arrivate, io ero già in casa, ma non se ne sono accorte. Dopo un po’ Francesca è andata in bagno, ha aperto la porta, ecco, purtroppo, io ero appena uscito dalla doccia. È durato tutto un attimo, ma volevo comunque scusarmi” e abbassa lo sguardo, per una frazione di secondo, poi i suoi bellissimi occhi azzurri guizzano di nuovo su di me.
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Siamo sulla spiaggia, a qualche metro di distanza. Lui indossa uno slip giallo fosforescente, che su qualsiasi altra persona sarebbe inguardabile, e un paio di occhiali da sole; io il bikini bianco che non metto da più di vent’anni e mi sento bella, o forse sono solo giovane. Se ne sta sdraiato con le mani dietro la testa, il corpo robusto ed elastico, come un arco teso. Mi metto a carponi e avanzo verso di lui. Minuscoli granelli di sabbia scivolano via appena appoggio la mano sulla sua gamba, liscia e dura. Sembra di accarezzare la statua di un semidio. Sul viso, un sorriso appena accennato, di uno abituato ad avere accanto donne genuflesse in preghiera. Mi guardo attorno, poi metto entrambe le mani sul costume e glielo abbasso. Ma non viene via. Ritento inutilmente, poi sconfitta, sbatto i pugni con violenza all’altezza dell’inguine, ancora, e ancora, fino a quando le mani cominciano a farmi male e dal dolore mi sveglio.
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“E me lo dici solo adesso?”
“Eri via per lavoro, cosa dovevo fare, dirtelo al telefono? A casa tutto bene, ah dimenticavo, tua figlia ha visto il pisello del papà di…”
“ZITTA! Abbassa la voce, che ci sente.”
“A parte che sarà in camera con le cuffie sul cervello, Paolo, ascoltami, non è successo niente. Tua figlia ha sedici anni…”
“Come fai a non capire, è proprio questo il punto. Non è più una bimba! E poi, perché lei non ce l’ha raccontato, perché non ci ha detto niente?”
“Forse perché non è successo niente?”
“Dobbiamo comunque parlarle.”
“Ma si può sapere perché vuoi farne un affare di stato?”
“Non mi fido, ok? Da quando si è lasciato con la moglie, forse tu non lo sai, ma io sì, tutte se le è portate a letto!”
“Tutte chi?”
“Voglio solo sapere se è andata come dice lui, o se è successo qualcosa di strano che lui non ti ha voluto dire. Che ne sai, magari ha lasciato aperta di proposito la porta del bagno. Non vorresti saperlo prima di mandarcela un’altra volta?”
“Ma come tutte?” penso, mentre faccio si con la testa.
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Quando entriamo nella stanza Francesca non se ne accorge e continua per un po’ a dondolare il piede sospeso a mezz’aria. Poi Paolo sposta la sedia, lei gira la testa e, rimanendo sdraiata sul letto, si toglie le cuffie. “Ti volevamo parlare di una cosa” le dice, prendendola alla lontana e farfugliando frasi senza senso, mentre lei ci guarda come fossimo due matti. Non ha tutti i torti. “Senti Francesca, quello che tuo padre…”. “Che noi…” puntualizza pignolo lui. Lo guardo sospirando, poi riprendo dal “Che noi”. Quando finiamo di parlarne, sorridendo, ci dice: “Dalle vostre facce pensavo voleste divorziavate…”. “No!” quasi grido, mentre entrambi si voltano verso di me aspettando che aggiunga qualcos’altro. Rimaniamo in silenzio, poi Paolo si alza ed esce. Non vedeva l’ora. Io mi siedo al suo posto mentre Francesca si è già rimessa le cuffie, riprendendo a dondolare il piede, gli occhi di nuovo chiusi. Quando dopo un po’ li riapre gira la testa e, sollevando un lato della cuffia, mi chiede: “Perché mi fissi?”. “Niente amore, stavo solo pensando”.
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Eravamo sposati da pochi mesi e, mentre ci trovavamo in visita da parenti a Bologna, siamo andati a una mostra fotografica. Ricordo che passavamo da una foto all’altra, tenendoci per mano, fino a quando siamo arrivati davanti a “Man in a Polyester Suit” di Robert Mapplethorpe. Era la prima volta che vedevo da così vicino il pene di un altro uomo, a parte quello delle statue nei libri di scuola. Ma questo era enorme. Lo scatto aveva un taglio che andava da sotto le spalle a sopra le ginocchia e, tolto il completo elegante, dell’uomo si vedevano solo le mani sui fianchi e quel rotolo di carne che fuoriusciva dalla patta dei pantaloni… ricordo che pensai alla testa di un elefante. Quando Paolo si spostò per passare alla foto successiva, io rimasi lì, immobile, completamente rapita. La sala era piena di gente e c’era un percorso obbligatorio da seguire; dovevo per forza fare spazio alle altre persone in fila accanto a me, così allungai la mano, aggrappandomi di nuovo a quella di Paolo, stringendola forte, e non la lasciai più fino alla fine della mostra.
Causa pandemia, Daniele Israelachvili ha scritto alcuni racconti che sono usciti, o saranno a breve pubblicati, su: ‘tina, Risme, Blam, Bomarscé, Clean, Pastrengo, Narrandom, Il Fuco, Grande Kalma, Smezziamo, Malgrado le mosche, Mirino e Spazinclusi. Poi quando finisce ha promesso che torna a lavorare.